«La XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi è sempre stata connotata dalla ricchezza incredibile che viene dalla diversità di contesti e di esperienze ai quattro angoli del mondo. A livello di atmosfera relazionale il clima è stato senza dubbio anche più caldo rispetto all’anno scorso. Si sentiva che c’era già stato un precedente mese di lavoro, l’anno passato trascorso insieme, e che, quindi, erano già nate delle relazioni, delle conoscenze che hanno permesso anche di respirare un clima di maggior fiducia». Erica Tossani, vicedirettrice di Caritas ambrosiana che, al Sinodo ha svolto il ruolo di facilitatrice sia nella prima, sia nella seconda Sessione, non ha dubbi sull’esperienza positiva e costruttiva vissuta partecipando all’assise. Quella il cui Documento finale, che ha valore di Magistero, sottolinea i due termini essenziali, appunto dei “legami” e delle “relazioni”, indicando che «per essere una Chiesa sinodale è necessaria una vera conversione relazionale. Dobbiamo di nuovo imparare dal Vangelo che la cura delle relazioni e dei legami non è una strategia o lo strumento per una maggiore efficacia organizzativa, ma è il modo in cui Dio Padre si è rivelato in Gesù e nello Spirito».
Questa “atmosfera relazionale” ha influito anche sulla qualità del vostro lavoro?
Certamente, rispetto all’anno scorso eravamo anche più consapevoli del fatto di essere dentro a un processo, con minore ansia di arrivare a chissà quale decisione, ma piuttosto con la preoccupazione di costruire un nuovo modo di essere Chiesa.
Il ruolo dei facilitatori è stato ulteriormente valorizzato in questa seconda Sessione?
Sì, anche perché, alla luce dell’esperienza dell’ottobre 2023, si è evidenziata l’importanza della presenza di qualcuno che potesse agevolare il discernimento, sapendo anche contribuire a creare un clima favorevole. Per questo, nella Sessione appena conclusasi, a noi facilitatori è stato chiesto un ruolo un poco più attivo. L’anno passato la questione era quella di aiutare essenzialmente a portare alla luce le differenze, le diverse esperienze ecclesiali rispetto alle questioni trattate. Quest’anno, invece, c’era l’esigenza di arrivare comunque a definire degli orientamenti comuni. Quindi, ai facilitatori è stato chiesto di avere una parte più attiva nel sostenere il gruppo, ossia il tavolo di lavoro costituito da 11 persone – 10 membri più, appunto, un facilitatore o facilitatrice – a individuare tali orientamenti comuni.
Quindi siete entrati, per esempio, nel merito di alcune questioni precise?
Personalmente non sono entrata sui contenuti, o meglio, non ho portato la mia posizione personale riguardante i contenuti, ma ho aiutato il gruppo, alla luce dei contenuti diversi, a fare sintesi e a intravedere piste possibili di confronto.
Ogni facilitatore partecipava sempre allo stesso tavolo?
In questa ultima Sessione ho preso parte a due differenti tavoli. La prima e l’ultima settimana sono stata con lo stesso gruppo, invece nei tre moduli centrali dell’assise con un altro. Una novità rispetto al 2023, quando si cambiava tavolo a ogni modulo. Si è scelta la formula di cambiare solo due volte per dare una maggior continuità, quindi, favorendo ulteriormente la conoscenza reciproca. Inoltre, nella seconda Sessione, tutti i tavoli hanno lavorato su ciascuno dei temi presenti nell’Instrumentum laboris.
Il processo sinodale non finisce qui…
Sì, sia perché si è resa evidente la necessità di riflettere di più su alcune questioni specifiche dal punto di vista teologico e antropologico, sia perché, soprattutto, la palla ritorna in mano alle Chiese locali che saranno le vere protagoniste di questo processo, in quanto chiamate ad attuare gli orientamenti delineati nel documento finale. Adesso la recezione è un passaggio fondamentale.
L’anno scorso era stata evidente una decisa valorizzazione delle voci femminili, è stato così anche quest’anno?
Sì, tanto che la valorizzazione delle competenze e dell’apporto che le donne possono portare nella Chiesa e per la Chiesa ha avuto spazio nel dibattito ed è presente nel documento finale. È chiaro che questo sia stato un aspetto particolarmente importante e significativo.
Durante i lavori sono emerse differenze sostanziali fra Chiese, magari, distanti come tradizione?
È innegabile che vi siano state, soprattutto su alcune tematiche, differenziazioni che però afferiscono più alla cultura che alla dottrina. Sono emerse differenze che non sono facilmente e immediatamente risolvibili con una decisione comune per tutti, ma l’aspetto positivo è che si sia preso atto della loro esistenza e del fatto che sia necessario continuare ad ascoltarsi, a conoscersi e a riflettere su alcune questioni.
Quale è stata una di queste problematiche?
Sui media è stata molto presente, e con molto clamore, la questione delle “diaconesse”, dell’accesso al diaconato delle donne. Ma più in generale, vi sono contesti che sono percepiti in modo diverso. E questo non dipende solo da un da un discorso, diciamo così, intraecclesiale, ma da un dato culturale rispetto a come è visto un particolare ambito. Saggiamente si è lasciato che le questioni emergessero e fossero oggetto di un confronto, vissuto tuttavia con la sapienza di dire che su questo o quell’argomento serve ancora tempo per discernere. Non a caso, nel Documento finale si legge: «La questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta. Occorre proseguire il discernimento a riguardo. L’Assemblea invita prestare maggiore attenzione al linguaggio e alle immagini utilizzate nella predicazione, nell’insegnamento, nella catechesi e nella redazione dei documenti ufficiali della Chiesa, dando maggiore spazio all’apporto di donne sante, teologhe e mistiche».