MILANO DA TEMPO SI È LASCIATA VIVERE
Milano è da tempo una città non pensata, che si è lasciata vivere, che quasi fatalisticamente ha atteso «tempi migliori», nella convinzione che se la sarebbe comunque cavata, perché il «risorgere» era verbo che apparteneva alla tradizione cumulata nei secoli e perché la sua gente possedeva il genio del rimboccarsi le maniche, del «tiremm innanz», della metabolizzazione di processi anche molto complicati.
Tangentopoli ha dato il colpo di grazia a molte convinzioni e ad altrettante attese. Ma lo scandalo è stato il sintomo e non la causa. Una malattia più grave e più profonda fiaccava da tempo l’organismo nell’intimo, nei gangli vitali. Erano anni che Milano non quadrava. Era come se idee e realizzazioni avessero litigato. I cantieri erano aperti: passante ferroviario, quadruplicamento delle Nord, Linate, Malpensa, Fiera, aree dimesse. Ma la cultura politica languiva. Non elaborava strategie collettive. Non sapeva bene dove la città dovesse andare, a quali obiettivi puntare sia nei settori produttivi, sia nei collegamenti nazionali e internazionali, sia nei lineamenti di aggregazione e di rappresentanza politica, sindacale, culturale, sia nel governo del territorio e nell’espressione delle autonomie locali.
Ad elencare le cause di incertezze e disagi erano tutti buoni: trasformazioni e riconversioni industriali con tramonto delle «tute blu» e avvento dei colletti bianchi; crescita del potere finanziario e dei capitali rispetto al rischio d’impresa; settori pubblici ed enti di Stato ridotti a carrozzoni o a pronto soccorso di aziende decotte e antieconomiche che avevano compromesso la famosa competitività lombarda; l’arroccamento delle forze sindacali nella strenua difesa di posizioni acquisite; lo strapotere del sistema creditizio; le collusioni indotte dalla crescita del sistema di rendite di posizione; la terziarizzazione; l’invecchiamento della popolazione. Per citare alcuni dei fenomeni, almeno sul fronte dell’assetto e dell’andamento socio-economico.
È vero: c’è stato un tentativo di dibattere intorno alle difficoltà di Milano ad esprimere leadership politiche capaci di incidere a livello nazionale e di esportare quindi un «modello ambrosiano» che aveva tra i suoi connotati l’attitudine ad assicurare compatibilità fra sviluppo e coesione sociale, fra imprenditorialità e giustizia distributiva, tra profitto e correttivi in termini di riequilibrio, fra pesi delle rappresentanze e solidarietà verso i deboli. Il presupposto, insomma, che si dava per scontato è che esistesse un dato perenne: Milano costituiva la sintesi della città «liberale» nella conduzione e «sociale» sui grandi numeri. Si sarebbe trattato, in definitiva, di procedere a una semplice messa a punto, di individuare un assestamento con i tempi che cambiavano e, in base a una psicologia spicciola, di recuperare in positivo la «cultura del lamento», connaturata con l’animo, introverso e brumoso della città, e di trasformare insoddisfazioni e proteste in indici di volontà di ripresa.
Una sorta di black out del pensiero ha invece impedito di vedere come gli equilibri tra visione borghese e socialità stavano saltando proprio a partire dai secondi anni Settanta. Paradossalmente Milano ha contribuito in maniera determinante a trovare l’unità culturale e politica di quello che si chiamò allora «arco costituzionale» contro il terrorismo , intendendo però la sacrosanta reazione agli attentati e agli assassinii vili di innocenti come salvaguardia dello statu quo, senza interrogarsi a sufficienza e in profondità sulla possibile esistenza di motivi reali di disagio che le forze eversive utilizzavano a sostegno di ideologie inaccettabili e di proclami deliranti.
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