Una bella e cara tradizione dei milanesi che, tuttavia, è soprattutto un modo per dire grazie al Signore dell’anno che si conclude e un prezioso momento per riflettere su ciò che ci attende come cristiani e cittadini.
Così, l’Eucaristia che culmina con il canto del Te Deum e che il cardinale Scola presiede, concelebrata da otto sacerdoti nella basilica di Santa Maria della Scala in San Fedele – quasi tutti gesuiti perché qui ha sede la Regione Settentrionale Italiana della Compagnia – richiama con forza il senso della speranza “che libera da ogni confusione”, come si legge, appunto nel Te Deum.
Lo sottolinea l’Arcivescovo, nella sua riflessione, definendo il senso di una Celebrazione che vede riuniti moltissimi cittadini e i rappresentanti delle Istituzioni. «Ognuno di noi nel suo cuore farà memoria dei fatti, degli avvenimenti e dei doni che lo hanno condotto a questa Eucaristia per cantare l’inno di ringraziamento. Tutti insieme, in unione con tutti i nostri fratelli uomini, rivolgeremo a Dio una domanda sincera di salvezza consona, in modo del tutto particolare, al significato dell’Anno giubilare che stiamo celebrando».
E se sono «molti i fedeli che, anche nella nostra Chiesa ambrosiana, attraversano le Porte e si dispongono a ricevere l’indulgenza giubilare», occorre, tuttavia, proprio per vivere al meglio lo straordinario Anno di Grazia, continuare a invitare ciascuno ad approfittare di questo grande dono che papa Francesco ci ha fatto».
Offerta che, forse mai come nella sera in cui si traccia il bilancio di dodici mesi vissuti, con lo sguardo già rivolto ai prossimi, può essere capita, aiutando, al contempo, a comprendere il senso del tempo e della vita vera. Lo suggerisce il Cardinale, annodando il filo d’oro della Parola di Dio, in cui Primo e Nuovo Testamento trovano la loro stupenda armonia perché «la storia della Rivelazione resta aperta al Popolo dell’Elezione e il Cristianesimo non la strumentalizza, nella logica della discontinuità nella continuità. Il mistero del tempo, che segna anche questo passaggio d’anno, trova il suo senso nel Figlio di Dio incarnato. Lo incontra la storia della famiglia umana in tutta la sua interezza, dalla più profonda preistoria, che le odierne indagini scientifiche trasformano sempre più in storia, fino ai nostri giorni. L’umano senso religioso, investendo il popolo, diventa sorgente di costumi, di cultura e di civiltà. E, quindi, il lungo e sofferto cammino del popolo ebraico illustra paradigmaticamente questo percorso e la venuta del Dio Bambino imprime alla storia una direzione verso l’alto, senza annullarne le cadute, le contraddizioni e i conflitti, come stiamo toccando con mano, in modo particolarmente acuto, in questa epoca di transizione al nuovo millennio».
Tutto, insomma – «anche la nostra storia personale, la nostra biografia» –, è illuminato dalla luce di Dio, per i cristiani del Dio che si fa piccolo e fragile. Così, «il tempo perde il pungolo maligno dell’annichilimento, perché è abitato dal Cristo presente e vivo. Questo significa che nulla del passato, che sia valido, perde di consistenza, niente perde di valore e il futuro, che è sostenuto dalla speranza, finisce per trascinare ogni cosa. È la speranza, inerme virtù bambina – come la definisce Charles Pèguy – quella “piccina”, che trascina le altre due e che, con la sua tenerezza, trapassa gioie e dolori».
Il ringraziamento, dunque, non può che essere «per Dio, per i doni che Egli ha dato a ciascuno di noi, alla nostra città, al mondo».
Poi il pensiero va ai tanti cristiani che, testimoniando questo stesso Signore, vivono il martirio, rosso di sangue, come rosse sono le Vesti liturgiche nell’Eucaristia che si sta celebrando in Rito ambrosiano. «Non c’è traccia di sentimentale ingenuità, tantomeno di oppiacea ideologia, nella fede cristiana. I nudi fatti lo dimostrano. Mai come in questi tempi, tanti cristiani subiscono il martirio a causa della loro fede. Il loro sangue, come già dicevano i nostri antichi padri, è seme di nuovi cristiani. Anche per le nostre terre ambrosiane e per lo stanco Occidente, il martirio del sangue, subito da tanti fratelli, domanda a uomini e donne che credono in Gesù almeno il martirio della pazienza, condizione per affrontare con grande realismo il cammino dell’esistenza, che inevitabilmente di gioie e di dolori è fatta».
Da qui l’auspicio: «Siano questi giorni, di relativo riposo, anche giorni di meditazione e di silenzio, per lasciare che Gesù Bambino entri nei nostri cuori e menti. Così inteso il nostro Te Deum non è un gesto a-critico, non è una pura usanza perché dall’alto ci viene incontro il disegno della Trinità». Disegno di amore da cui deve nascere una tensione missionaria, specie in questo Anno della Misericordia, magari attraverso l’ospitalità a chi ha bisogno o, semplicemente in queste ore, è solo, dice in conclusione Scola.
Appunto perché, come scrive il Papa in Misericordiae Vultus, determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio, è la testimonianza in prima persona della misericordia.
Il Te Deum al Pio Albergo Trivulzio
«Non cedete alla tentazione, pur con le malattie e gli acciacchi dell’età avanzata, di credervi inutili. La dignità umana non sta nel “fare”, nell’azione, ma nella possibilìtà di esserci e di amare».
È l’ultimo giorno dell’anno e il cardinale Scola, come tradizione, visita il Pio Albergo Trivulzio – «una realtà che dimostra la capacità di civiltà di Milano» – per il Te Deum, cantato nella chiesa settecentesca interna alla struttura, dove i ponteggi dei restauri strutturali, sembrano quasi una moderna architettura nell’antica sobrietà del tempio. Ad accogliere l’Arcivescovo, c’è il direttore generale, Claudio Sileo, i medici, i volontari, i vertici e il personale dell’Istituto, ma soprattutto i moltissimi malati e anziani degenti, riuniti davanti all’altare. Non mancano il rappresentante del Comune, l’assessore Pierfrancesco Majorino, il gonfalone della Regione, i sacerdoti, tra cui don Sante Torretta, nel cui territorio parrocchiale è sito l’ospedale e il decano don Marazzini. Dà voce a tutti, il saluto del cappellano don Carlo Stucchi, che dice: «Eminenza, la sua presenza qui scandisce gli anni. Rappresentiamo da duecentoquarantacinque anni la storia di una porzione di Milano – il “Trivulzio” era inizialmente in via della Signora – e ci auguriamo di continuare a farlo con sensibilità, professionalità e umanità. Gli eventi esterni si ripercuotono nella vita interna del nostro Istituto, come è stato per l’Expo. Allora, mi piace pensare al “Trivulzio”, come a un padiglione speciale che ha al centro l’uomo e di fronte al quale ci si lascia scuotere la coscienza». Una “coscienza” cui fa riferimento anche l’Arcivescovo nella sua omelia, aperta dal ringraziamento per tutti coloro che operano con generosità nella struttura. «È sempre un’occasione, per me, di particolare commozione, soprattutto in questi giorni natalizi, recarsi in taluni luoghi dove, a titolo diverso, sono presenti persone sottoposte alla prova, i bimbi, gli ammalati, gli anziani, i carcerati. Espressione del bisogno, insieme alle non poche persone che, in tanti quartieri periferici diffusi a macchia di leopardo nella nostra Milano, vivono in uno stato di quasi emarginazione, anche se sono molti sono gli ambrosiani che danno una grande mano», nota, infatti, Scola. L’invito è per tutti a «guardare la realtà dal punto di vista di chi è nella prova e nella sofferenza», proprio perché le difficoltà «permettono di vederla meglio», come indica papa Francesco. In gioco, suggerisce il Cardinale, c’è la questione cruciale del senso della vita e dello starvi di fronte, come appunto si vede, meglio che altrove, nel dolore e nella vecchiaia «mentre noi siamo spesso dimentichi, superficiali, non attenti a tale senso che,comunque, si ripresenta sempre, come testimonia questa Istituzione così cara a Milano e antica». Il pensiero torna a cosa «vogliamo fare della nostra vita, a che cura averne, a come difenderla: se egoisticamente e coltivando rapporti formali o giocandola dentro una relazione per cui l’altro diventa decisivo». Il richiamo è alla preghiera di Bernardo di Chiaravalle, proposta per il Te Deum, in cui si parla di gioia, “di una voce di esultanza e di salvezza”, per la nascita del Dio bambino avvolto in fasce, “parola buona, parola di consolazione”. Ma come, allora strappare il Natale alla tentazione «di relegarlo in una favola, in un mito? Come, nelle nostre terre ambrosiane così segnate dalla presenza di Gesù, riscoprirne il valore, quale comunicatore del disegno di Dio sulla nostra vita, su quella del popolo ambrosiano, italiano ed europeo?».
Chiara la risposta dell’Arcivescovo: «solo facendo spazio alla domanda di senso sul tempo. Occorre introdursi a un avvenimento – il Dio fattosi uomo – che orienta il tempo in una dimensione diversa, dove la morte non è la fine di tutto. Viene il Signore e ha le fattezze di un bimbo che ci abbraccia e si lascia abbracciare con la commozione intensa con cui si guarda un neonato».
Da qui due conclusioni, che sono consegne. L’una ai degenti: «Guai cedere alla tentazione di sentirsi, a causa delle malattie e dell’età, inutili. È comprensibile, ma sbagliato, perché la dignità dell’uomo non sta nel rendersi utile, nel “fare”, ma nella possibilità di amare. Se pensiamo che anche la politica è l’espressione di una “filìa”, di un’amicizia civica, così capiamo che ognuno, anche voi, deve impegnarsi e lavorare per il bene comune. Guardate indietro alla vostra esistenza, non per essere nostalgici, ma per pensare quanto di bene abbiamo vissuto».
E, infine, l’auspicio rivolto ai volontari e al personale, che «qui rappresentano l’identità profonda di Milano, la sua dedizione, la capacità di altruismo, di edificare e di progredire».
Insomma, di costruire quel domani che «qui, in questi tempi così pieni di avventura, ma anche di fascino, non solo di tragedia, si osserva bene. Se l’amorevole cura ogni giorno di chi è più nel bisogno, coinvolge soprattutto le generazioni di mezzo e i giovani, è un segnale di civiltà. Io penso che la nostra Milano, che così progredisce, sia degna di tutto questo».
Non manca un ultimo augurio alle autorità perché, «possano affrontare la situazione delicata in cui questa realtà e quelle connesse si trovano, con successo e nel più breve tempo possibile».
E, quando, finito il canto del Te Deum, si sale al reparto “San Carlo”, dedicato ai malati di Alzheimer – dove la primario Cinzia Negri illustra l’attività che si svolge tra i trentasette letti per la riabilitazione delle demenze -, ben si capisce perché l’Arcivescovo definisca il “Trivulzio” e il suo futuro, «caparra di vita buona per tutta la nostra realtà culturale, civile, ecclesiale e politica».
«Nell’Anno santo della Misericordia – le parole sono ancora del Cappellano – l’icona della Porta Santa interpella le porte dei cuori, porte che si aprono all’accoglienza e al perdono». Questo è il “Trivulzio”: cinquecentonovanta posti in RSA, quasi quattrocento per la riabilitazione, dodici in hospice. Più di tremila persone prese in carico ogni anno, senza considerare i malati assistiti in regime ambulatoriale e semiresidenziale.