Da settembre a giugno, ogni mattina, un italiano su quattro esce di casa per andare a scuola. Che sia uno degli oltre otto milioni di alunni dall’infanzia fino alle superiori o un insegnante e un dirigente, che sia un genitore che accompagna il figlio o uno delle altre migliaia di lavoratori che gravitano attorno al mondo dell’istruzione, compie un gesto tanto normale quanto straordinariamente significativo.
Uscire di casa ed entrare a scuola, secondo la pluripremiata scrittrice Silvia Avallone, «è il viaggio più importante della nostra vita, perché la libertà di sognare con la propria testa non si apprende altrove. Il nostro futuro, sia come singoli che come collettività, si gioca qui». Una visione, quella della scuola come perno della crescita personale e dello sviluppo sociale, che, oltre agli investimenti, chiede e merita fiducia, insieme a un progetto condiviso.
Un altro scrittore, che è anche insegnante, Eraldo Affinati, chiede spesso «di cosa parliamo quando parliamo di scuola?». La domanda è legittima, visto il dibattito che periodicamente si accende sugli aspetti più vari dell’istruzione nel nostro Paese, non di rado senza minimamente sfiorare il cuore della questione: la possibilità – che passa dalle aule – di immaginare e preparare un futuro diverso dal presente che stiamo vivendo. Qual è la società per la quale vorremmo preparare le nuove generazioni? La scuola-comunità viva è il laboratorio in cui sperimentarla. Per questo, prosegue Affinati, «ti vorrei raccontare i momenti magici che fra pochi giorni, quando ricominceranno le lezioni in tutta Italia, vivranno milioni di persone, fra studenti e professori: nuclei di umanità che entrano in rapporto, mondi interiori pronti a travasare gli uni negli altri, sensibilità a confronto, caratteri in formazione e maturità da conquistare».
Negli attimi di silenzio che precedono la prima fatidica campanella, non è difficile cogliere le attese e le domande che si danno appuntamento sui banchi ancora scarabocchiati dall’anno precedente, gli incroci di sguardi che si evitano e si rincorrono allo stesso tempo, le paure di non essere capiti o di venire subito classificati: grida silenziose, ma più stridenti del gesso premuto sulla lavagna (di una volta).
Come la notte più mitizzata dell’anno, quella di san Silvestro, anche il capodanno scolastico porta con sé fiumi di speranze e di buoni propositi. Li fanno gli studenti, ma anche i professori, li chiedono i genitori ai figli, li catturano i telegiornali dalle bocche di politici e ministri. E meno male perché, pur sapendo che solo una piccola parte di questi andrà in porto, come del resto succede per quelli del primo gennaio, se venisse meno la molla del desiderio morirebbe anche l’educazione.
Il primo giorno di scuola porta sempre con sé una promessa. La promessa di un nuovo inizio. Li cerchiamo tutti, a qualsiasi età, i “nuovi inizi”. È un bisogno naturale poter ogni tanto girare pagina e disporsi ad affrontare ciò che verrà senza temere il foglio bianco, accettando anzi la sua sfida. Fa parte della promessa più grande tipica dell’educazione, che può tracciare strade nuove solo partendo dal riconoscimento del valore (e del bisogno) dell’altro, per aprirlo al potere generativo della cultura.
A proposito di pagine bianche, ce ne sono alcune che si riempiono subito. Non so come fanno gli studenti che rinunciano al caro vecchio diario scolastico a favore degli appunti digitali affidati allo smartphone o al tablet. Il diario di scuola non serve ad annotare i compiti e gli impegni, è risaputo. È piuttosto il custode delle emozioni e delle scoperte, uno spazio sicuro dove rifugiarsi e lo specchio in cui guardarsi crescere, giorno dopo giorno. Pagine di riflessione e creatività che fanno rima con autocomprensione e libertà.
Se viene spontaneo guardare al primo giorno di scuola con gli occhi degli studenti, è altrettanto prezioso mettersi nei panni degli insegnanti, specialmente in un momento come quello attuale, in cui si sente forte il bisogno di ridisegnare i contorni essenziali della loro professione alla luce delle nuove sfide. Liberati, almeno in parte, dal ruolo di essere dispensatori di conoscenze, agli insegnanti resta l’enorme responsabilità di porre «semi che possono produrre effetti lungo tutta la vita» (papa Francesco, Laudato si’, n. 213). Ciò può avvenire solo testimoniando visioni e valori che siano bussola di riferimento per comprendere, discernere, cercare un senso, connettere, dare forma e sapore all’esistenza. Perché, come ricorda un altro noto professore-scrittore, Enrico Galiano, rivolgendo il pensiero ai suoi studenti, «in quella orribile fase della vita in cui il difficile è sapere chi essere, il regalo più bello che puoi fare loro è aiutarli a intravedere chi vogliono diventare».
*Dal 2015 direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per l’educazione, la scuola e l’università. Dal 2020 è anche direttore del Centro universitario cattolico.