Fare memoria grata, con affetto, di monsignor Luigi Stucchi a un anno dalla morte, perché la sua profonda spiritualità ci interroga e ci spinge a pensare e perché «ricordare la fede dei padri rafforza la fede dei figli». Potrebbe essere questa l’immagine simbolica della partecipata celebrazione eucaristica, presieduta dall’Arcivescovo nella Basilica di San Carlo al Corso, nell’anniversario della scomparsa del Vescovo ausiliare. Una vita intera, quella di Stucchi, dedicata a Dio e alla Diocesi nei tanti incarichi ricoperti.
Da Valmadrera e Lecco come giovane prete di oratorio alla passione per il giornalismo coltivata come direttore de Il Resegone, dalla parrocchia di Tradate guidata come prevosto, alla responsabilità di Vicario episcopale della Zona II. Poi Vescovo ausiliare e, fino a pochi giorni dalla morte, Vicario episcopale per la Vita consacrata femminile. Così come ha sottolineato l’attuale Vicario per la Vita consacrata, monsignor Walter Magni, rivolgendo alle molte religiose e consacrate presenti il saluto di benvenuto alla Messa, promossa dal Vicariato in collaborazione con Usmi, Cism e Ciis. Concelebranti, insieme a monsignor Magni, il Vescovo ausiliare monsignor Luca Raimondi, il Moderator Curiae monsignor Carlo Azzimonti e un’altra decina di sacerdoti tra cui padre Luca Zanchi, responsabile diocesano della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (Cism) e il neo parroco di San Carlo, padre Philomineraj Amburose, della Comunità dei Servi di Maria affidatari della parrocchia.
Dal Vangelo di Luca con la visita di Maria alla cugina Elisabetta prende avvio l’omelia dell’Arcivescovo.
Un uomo capace di ascoltare e orientare
«Come posso sapere che cosa devo fare? Come possono diventare storia e realtà le intuizioni che ho avuto, i sogni che ho sognato, i progetti che ho pensato? Queste, forse, erano le domande che Maria, la giovane donna di Nazaret, si poneva mentre andava in fretta. Ogni uomo, ogni donna attraversa, forse più di una volta, forse per tutta la vita, queste domande. In modo particolare, le ragazze e i ragazzi, che intuiscono una chiamata alla Consacrazione quando vivono gli anni del discernimento, cercano risposte alle proprie domande, specie qui in Europa dove siamo malati di domande», dice l’Arcivescovo Mario che aggiunge. «Il Vangelo rivela che la risposta alle domande inquietanti non viene da un ripiegamento su di sé, in una specie di ossessione per l’autoanalisi, da una intelligenza che capisce tutto, da una presunzione di poter fare qualsiasi cosa. Le risposte non vengono da un titolo o da un abito, ma da un altro che mi chiama. Maria, infatti, impara il suo nome dall’appellativo con cui l’angelo Gabriele la saluta, dalla gioia che illumina la casa di Elisabetta. Il nome viene sempre da un altro, da un fratello o una sorella che ci chiamano con il nome giusto diventando eco della voce di Dio».
Da qui il richiamo a una delle peculiarità di monsignor Stucchi, chiamato dall’Arcivescovo semplicemente don Luigi: «Questo chiamare con il nome nuovo le persone, mi pare sia stato un suo tratto tipico e benedetto, fin dagli anni della giovinezza: è stato capace di dire a molti il loro nome, cioè di aiutarli a riconoscere in che modo avrebbero potuto realizzare la loro vocazione e giungere alle scelte definitive della vita. Ha avuto la pazienza di ascoltare, di dire e di tacere, di orientare e di insistere, di seguire le persone con determinazione e lucidità e, così, giovani donne si sono avviate verso la vita monastica o la vita consacrata nel servizio delle comunità o la vita matrimoniale, e così giovani uomini si sono avviati verso il seminario e il Ministero ordinato».
Saper dire la parola giusta
E appunto qui sta la provocazione a pensare, per Delpini, in un momento di crisi vocazionale dove, forse – al di là dell’organizzazione di grandi appuntamenti, pur necessari -, occorre tornare a un rapporto più personale. Anche perché «ai giorni nostri si corrono due rischi opposti: quello di non dire niente, di essere semplicemente persone che ascoltano e che non si arrischiano a orientare gli altri su una strada. La proposta vocazionale è spesso taciuta per un senso di discrezione, per paura, per cui i giovani trovano solo risposte vaghe. E, poi, vi è il rischio opposto di dire tutto, di pretendere di essere interpreti della volontà di Dio e quindi, in un certo senso, imponendo cammini e stili di vita».
Altra è la responsabilità che riguarda ognuno di noi: «Siamo chiamati a costruire rapporti con gli altri caratterizzati da grande discrezione, ma non da reticenza, da grande umiltà e intensa preghiera, non certo essendo sbrigativi e generici, ma con la responsabilità – sottolinea, infatti, l’Arcivescovo – di essere un’eco di quanto lo Spirito ci suggerisce. Preghiamo don Luigi per saper dire la parola giusta al momento giusto a ogni singola persona». Come «Maria che proprio dalla parola di Elisabetta ha imparato a dire il Magnificat, che ha capito il suo nome quando è stata chiamata con il nome giusto da Elisabetta», conclude monsignor Delpini. Che, al momento dell’offertorio accoglie i doni dalle mani di alcune religiose espressione delle diverse etnie del Myanmar nei loro costumi tipici, sulle note di un canto tradizionale. Mentre il canto finale di questo momento – definito al termine «di affetto e gratitudine» – è affidato alla melodia messicana A Maria di Guadalupe.