È scostumato, ma lo facciamo ugualmente. Sveliamo subito come va a finire: la porta, rimasta sempre aperta, non sarà tuttavia mai valicata.
Proprio il contrario di quanto desidera il pellegrino giubilare, che invoca un’esperienza di perdono e di anticipazione del Paradiso. Una via di uscita dalla propria esistenza circolare. La ricerca di un oltre che papa Francesco – nella Spes non Confundit, la Bolla di indizione del Giubileo – ricorda poter essere offerta solo dallo «Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa», poiché irradia «nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino».
Per esaltare i colori della vita di Grazia, ora che tutte e cinque le Porte sante sono state spalancate, scegliamo di fissare il negativo fotografico. Ciascuno potrà guardare personalmente, in controluce, la pellicola. Traendone, è l’auspicio, animo. Ci aiuta, in questo, la famosa opera di Jean-Paul Sartre, scritta nel 1944. Il filoso francese, riferendosi all’inferno, lo descrive come «A porte chiuse».
Il titolo dà corso ad una riflessione teatrale sull’esistenza umana, centrata sull’idea che «l’inferno sono gli altri». Non si tratta, però, di una condanna generale delle relazioni interpersonali. Essa critica la condizione in cui l’individuo è intrappolato nel giudizio altrui.
L’opera si svolge in un’unica stanza chiusa, dove tre personaggi – Inès, Estelle e Garcin – sono costretti a convivere per l’eternità. Non ci sono dolori fisici. Il vero tormento è psicologico. I personaggi non possono sfuggire né agli altri né a se stessi. E l’assenza di sonno – privi del riposo giubilare, si potrebbe dire – e di tempo – santo, al modo dell’anno – è simbolo di una condizione di stasi esistenziale. Come riassume Garcin – «Niente palpebre, niente sonno, è un tutt’uno» – mettendo in relazione la sofferenza e la mancanza di un momento di sollievo o evasione. Il loro inferno non è fisico, ma consiste nel confrontarsi con le proprie colpe e con il giudizio degli altri. Il perdono non ha accoglienza.
L’idea centrale dell’opera è quella di esplorare come l’individuo sia intrappolato in un continuo processo di giudizio esterno. Non è il semplice essere con gli altri a creare l’inferno, ma il modo con il quale ci lasciamo definire dal loro sguardo e dalle loro opinioni.
Lo spiega sempre Garcin, pronunciando la proverbiale frase: «Lo zolfo, il fuoco, la graticola… Ah, che sciocchezze. Nessuna graticola: l’inferno sono gli altri». Nella consapevolezza che la condizione infernale non è causata da fuori, ma dalla relazione con gli altri, che diventano specchi deformanti delle proprie fragilità e colpe.
L’opera invita a riconoscere che l’inferno è, in fondo, una prigione mentale che si crea nella nostra incapacità di affrontare noi stessi senza il riflesso altrui. Una condizione in cui l’individuo è prigioniero della visione che gli altri hanno di lui.
Verso la fine del dramma, Garcin scopre che la porta è sempre rimasta aperta, ma né lui, né Inès, né Estelle se ne sono avveduti. Pur potendo, non sono ormai in grado di lasciare la stanza, imprigionati nei rapporti malsani creati.
L’augurio pontificio, per l’Anno santo, convoca ad altro: «Tutti sperano. (…) Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni».