Soncino è un luogo senza tempo,
sospeso nel cielo pannoso della Bassa cremonese,
cullato dalle nenie di vecchi cortili polverosi.
Per la sua strategica posizione tra il Ducato di Milano
e la Repubblica di Venezia, fu borgo militare
e teatro di aspre battaglie.
Ma oggi, oggi che più nessuno dà l’assalto ai suoi bastioni,
oggi che più non si vedono spade e cannoni nei campi attorno,
anche l’antico furore guerriero pare dimenticato.
E accanto scorre pigro il naviglio,
mormorando di storie lontane,
occhieggiando a qualche mulino assopito.
testo di Luca Frigerio
foto di Stefano Mariga
Eppure di Soncino la rocca è ancora il simbolo, se non il cuore. Anche se, più che monumento di belliche imprese, sembra il balocco di un gigante. Un maniero di rossi mattoni, che ha davvero tutto per piacere. E per farsi ammirare. Mura alte e merlate, innanzitutto, e un profondo fossato che le abbraccia: proprio come si immagina che un castello debba essere. E poi torri e torrioni, massicci e squadrati per lo più, ma con qualche nota gentile che sa di fiaba, e che non guasta. Che altro? Un ponte levatoio, immancabile. E, ancora, sale affrescate, stanze nascoste, antri segreti e cunicoli in cui la fantasia può correre e sbizzarrirsi…
Fu per contrastare le invasioni degli Ungari, prima del Mille, che in questa parte della campagna lombarda si decise di innalzare un baluardo. Poi se ne interessarono i Visconti, che tra il Duecento e il Trecento lo munirono di nuove difese e di molte rendite. Il posto, del resto, era l’ideale per un presidio: di qui Soncino, di là Orzinuovi, in mezzo il fiume Oglio, a far da spartiacque tra il dominio ambrosiano e quello della Serenissima, tra scaramucce e provocazioni.
Nei momenti di tregua, tuttavia, Soncino non perse l’occasione di prosperare e di fare buoni affari, proponendosi anche come vivace centro di commerci e di scambi per l’area padana, segnalandosi come attivo laboratorio di panni e lane. Il XV secolo, in particolare, fu un periodo felice per l’abitato cremonese, com’è testimoniato dalle belle dimore che ancor oggi si possono ammirare nel nucleo storico, bordate di cornici in cotto, alleggerite da putti festanti e da floreali decori.
In cambio della propria fedeltà ai Signori di Milano, Soncino ottenne condizioni eccezionalmente favorevoli, con lo status di “terra separata” che di fatto lo poneva in una situazione di privilegio nell’ambito dei possedimenti ducali. E proprio per volontà degli Sforza le mura furono in gran parte rifatte, o rafforzate, a metà del Quattrocento, mentre vent’anni più tardi venne presa la decisione di erigere un nuovo castello.
L’impresa appariva strategicamente necessaria, ma rispondeva senza dubbio anche a chiare esigenze di “rappresentanza”. A cominciare dagli stessi soncinesi. Fu forse anche per questo che la rocca fu realizzata più con attenzione a una certa armonia di forme, che alla funzionalità della struttura. Per scelta precisa, o per poca lungimiranza, gli architetti sforzeschi adottarono qui i collaudati moduli dei fortilizi padani, quelli, per così dire, tipicamente “medievali”. Ma ormai si era alle soglie dell’età moderna, anche, o soprattutto, nel campo della guerra e delle armi. Il nuovo castello di Soncino, per intenderci, nasceva vecchio, e ben poco avrebbe potuto fare contro gli attacchi non più di fanti e cavalieri, ma di bombarde e archibugi.
Il declino dei duchi milanesi segnò il tramonto anche per Soncino. Nel 1536 l’imperatore Carlo V diede la cittadina in feudo ai nobili Stampa, che lo mantennero per oltre tre secoli, fino all’Unità d’Italia. Principi e sovrani continuarono a passare per il turrito castello, ma ormai Soncino era destinata a scivolare fuori dalla storia, lentamente, inesorabilmente. E né la presenza asburgica, né l’occupazione napoleonica, valsero a riportarlo agli antichi splendori.
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