Il Sinodo è «un richiamo a una prassi che deriva dall’antichità e dai grandi concili» e, come ha scritto Paolo VI nel motu proprio «Apostolica sollicitudo» del 15 settembre 1965, è «un’attuazione di un’idea di Chiesa che viene da lontano» e «una risposta ai segni dei tempi». A ribadirlo è monsignor Giacomo Canobbio, professore emerito della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e uno dei tre teologi intervenuti all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro durante l’incontro «Chiesa e Sinodo sono sinonimi: stili e forme di una Chiesa sinodale».
Un antidoto al clericalismo
Un incontro pensato in concomitanza con la XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, in corso in Vaticano, e che ha previsto la riflessione – moderata da don Dario Vitali, coordinatore degli esperti teologi all’Assemblea del Sinodo – su due letture tratte dalla già citata «Apostolica sollicitudo» e dal discorso di Papa Francesco del 17 ottobre 2015 per i 50 anni dall’istituzione del Sinodo.
Una decisione, continua monsignor Canobbio, che è senza dubbio un effetto del Concilio Vaticano II e che è stata anche influenzata dal clima di riflessione teologica nella Chiesa di quel periodo, che suggeriva una maggiore attenzione alle periferie. L’obiettivo iniziale del Sinodo era quello di rafforzare l’unione tra il Papa e i vescovi di tutto il mondo, avere un’informazione diretta ed esatta sulla vita della Chiesa e rendere più facile il raccordo delle opinioni sulla dottrina e sul modo di agire.
Un evento, spiega ancora Canobbio, che diventa un processo con la Costituzione apostolica Episcopalis communio di Francesco del 2018. «Un antidoto al clericalismo – spiega ancora il teologo -, malattia che affligge la Chiesa e che impedisce di affermare l’identità del popolo di Dio. Il Sinodo è lo sbocco di un cammino e solo così potrà essere cospicuo – conclude -. prestando attenzione allo Spirito che parla attraverso la mente e il cuore delle persone».
Impossibile parlare di vescovi senza il popolo di Dio
«Nel Sinodo ci sono i vescovi, ma dov’è il popolo di Dio?». Da questa domanda invece è scaturita la riflessione della professoressa Simona Ruta Segoloni, professoressa presso l’ateneo Giovanni Paolo II di Roma. «Parlare di vescovi senza parlare di popolo di Dio è impossibile – sottolinea -. perché a loro è affidata una porzione del popolo di Dio».
In questo senso il Sinodo è necessario non solo «perché i valori di un soggetto collettivo come la Chiesa hanno bisogni di istituti giuridici», ma anche perché «non sarebbe possibile radunare solo i vescovi se la Chiesa vuole sentirsi radunata». «Niente di ecclesiale», infatti, «avviene fuori dal popolo». Compreso il Sinodo in atto, in cui è necessario un «reciproco ascolto» che superi la logica della semplice consultazione dei laici e arrivi a una costruzione condivisa del consenso. «Ogni membro del processo è un membro decisivo del processo – spiega ancora Segoloni -, e non esiste ministero o Sinodo se non per far vivere il popolo».
Rendere vivo il Vangelo dentro una cultura
Il Concilio Vaticano II, spiega invece monsignor Roberto Repole, Arcivescovo di Torino e teologo, percepisce la necessità di aiuto al Papa, «ma non si apre veramente alla realtà delle Chiese locali». Come testimonia la Lumen gentium, la visione che emerge dal Concilio è ancora esclusivamente universalista.
L’obiettivo della sinodalità, sottolinea ancora monsignor Repole, «è rendere vivo il Vangelo dentro una cultura. Le Chiese locali sono immerse in una cultura democratica», conclude, e certi valori è difficile comprendere come esistano fuori dalla Chiesa e non dentro la Chiesa.