Sono 1.804 i seminaristi diocesani che vivono nei 120 Seminari maggiori d’Italia. La maggior parte di loro si trova in Lombardia con 266 unità (15% del totale) e nel Lazio con 230 (13%), mentre la Basilicata e l’Umbria sono le regioni con la numerosità assoluta più bassa, facendo registrare rispettivamente 26 seminaristi (1,4%) e 12 (0,7%). Un quadro che tuttavia cambia se si rapporta il numero dei seminaristi agli abitanti del territorio. In questa classifica, infatti, a primeggiare sono due regioni del Sud: la Calabria con 29 seminaristi e la Basilicata con 23 seminaristi ogni 500.000 abitanti. In ultima posizione, l’Umbria con 7 seminaristi diocesani.
I numeri, rilevati dall’Ufficio nazionale per la Pastorale delle vocazioni della Cei tramite un poderoso lavoro di raccolta e analisi dei dati che ha coinvolto tutti i Seminari italiani, mostrano una realtà in linea con il calo degli ultimi cinquant’anni. Secondo le statistiche dell’Annuario pontificio, infatti, nell’arco di mezzo secolo le nuove vocazioni in forza alla Chiesa cattolica sono diminuite di oltre il 60% passando dai 6.337 del 1970 ai 2.103 del 2019. E soltanto nei dieci anni che vanno dal 2009 al 2019, la flessione in Italia dei seminaristi diocesani è di circa il 28%.
Una diminuzione che non può essere semplicemente ricondotta all’inverno demografico, se è vero che il decremento della popolazione maschile di età compresa tra i 18 e i 40 anni nello stesso periodo è stato pari al 18%.
«Se mancano le “vocazioni” non è un problema sociologico, o non soltanto. Somiglia più al sintomo di una malattia della quale trovare una cura. Chiudersi, difendersi, scansare ogni prova, immunizzarsi contro la vita non sono sicuramente orizzonti nei quali può fiorire la vita – e la vocazione – che ha bisogno di aprirsi, entrare in contatto, affrontare le sfide, correre alcuni rischi. L’Italia è da evangelizzare come è da evangelizzare il cuore di ciascuno, sempre», osserva don Michele Gianola, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio.
L’età media dei giovani che frequentano i seminari maggiori è pari a 28,3 anni. Il maggior numero di seminaristi (43,3%) ha un’età compresa tra i 26 e i 35 anni con differenze territoriali evidenti: nel Nord Est il 50% appartiene a questa fascia d’età, ma la percentuale cala man mano che si scende al Centro (43,5%) e al Sud (39,2%). La generazione più giovane – quella tra i 19 e i 25 anni – è rappresentata da 4 seminaristi su 10 (il 42,2% del totale) e, anche in questo caso, lungo lo Stivale appaiono differenze piuttosto evidenti: al Sud il 47,3% ha meno di 25 anni, al Centro il 35,5% e nel Nord Est il 37,7%. Un seminarista su dieci (13,6%) ha più di 36 anni. Persiste la tendenza a provenire da famiglie con più figli: un solo seminarista su dieci è figlio unico, il 44,3% ha un fratello o una sorella, un quarto ne ha due (25,4%) e uno su dieci ne ha tre (10,8%).
La stragrande maggioranza dei seminaristi ha frequentato le scuole superiori in una struttura statale (l’87,4%) e uno su dieci (il 12,6%) in una struttura paritaria. Tra i percorsi formativi offerti il 28,1% ha compiuto studi umanistici-classici, il 26,9% scientifici e il 23,2% si è diplomato in istituti tecnici. Solo uno su dieci (il 10,8%) ha fatto studi professionali.
Un panorama notevolmente cambiato rispetto a qualche decennio fa, quando la quasi totalità dei candidati al sacerdozio era in possesso della maturità classica. Quasi la metà dei seminaristi (il 45,9%), inoltre, ha frequentato l’università con indirizzi molto variegati e poco meno (43,3%) ha lavorato. «La vocazione è un’opera artigianale che ha bisogno dell’apporto di molti per fiorire. Non riguarda solo i tempi più dedicati al discernimento – spiega don Gianola -, come il seminario, ma intreccia il lavoro di molte mani. Più o meno consapevolmente, infatti, ogni cura, ogni azione educativa, ogni passo compiuto insieme nella crescita e nello sviluppo di una vita contribuisce al formarsi della persona. Tutti i luoghi possono così diventare spazi nei quali prendersi cura della vocazione, gli uni degli altri, prendersi cura della persona, intessere quel dialogo di stima e di ascolto che è terreno fecondo per la semina del Vangelo».
A livello di provenienza geografica, il 10% dei seminaristi proviene da altre parti del mondo e la metà di essi frequenta un seminario del Centro Italia. L’Africa è il continente maggiormente rappresentato: oltre un terzo dei seminaristi stranieri (38,5%) proviene da queste terre, in particolare da Madagascar, Nigeria, Camerun e Costa d’Avorio. Dal continente europeo proviene circa uno straniero su cinque, in particolare da Polonia, Albania, Romania e Croazia.
«La composizione sempre più multiforme dei nostri seminari e dei futuri presbitéri impone una riflessione su una proposta educativa capace di discernere e valorizzare la ricchezza che la numerosità delle vie percorse per arrivare ad una scelta vocazionale porta con sé. Chi raggiunge il seminario – conclude don Gianola – porta con sé la propria storia fatta di potenzialità e di limiti, di fecondità e di ferite. Tutto questo, che è la vita, non può non essere preso in considerazione perché è in essa che si può riconoscere – tramite opportuno discernimento – la “stoffa da prete”, la “materia” che la Chiesa chiede di discernere a tutto il percorso formativo. Assumere uno sguardo vocazionale non significa vedere ‘preti e suore’ dappertutto ma saper intuire, in ogni contesto, i possibili inviti che lo Spirito ha seminato nel cuore degli adolescenti e dei giovani e affiancare i propri passi ai loro perché nell’ascolto della Parola possano anch’essi riconoscerli».