“La strada e il villaggio, crocevia per camminare”. Il titolo del seminario che, nell’Aula Magna dell’Università Cattolica a Milano, riunisce delegati provenienti da 78 Diocesi italiane con 15 Regioni rappresentate, dice già tutto di un nuovo modo di parlare della disabilità coniugandola sempre con l’appartenenza. I 2 termini che, non a caso, tornano nel sottotitolo dell’incontro che occupa l’intera giornata dell’11 marzo, proprio a indicare la necessità di potenziare l’inclusione attraverso un «tu sei mio, noi ci apparteniamo», carico di promesse per tutti.
A concludere i lavori della mattinata – nel pomeriggio si prosegue con laboratori di gruppo – arriva, così, l’Arcivescovo che prende la parola dopo i saluti istituzionali di monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, di Luigi D’Alonzo, delegato del rettore dell’Ateneo per l’integrazione degli studenti con disabilità, e le comunicazioni di Moira Sannipoli, docente di Pedagogia dell’infanzia e Pedagogia speciale dell’Università degli Studi di Perugia, e di don Ubaldo Montisci, docente di Metodologia catechetica e Formazione presso l’Università Pontificia Salesiana.
Accanto al vescovo Mario, don Mauro Santoro, presidente della Consulta diocesana “Comunità cristiana e disabilità” e moderatore dell’evento.
L’intervento dell’Arcivescovo: 4 prospettive
Dall’«uso eccessivo della parola sinodalità che fa perdere la ricchezza e la complessità della grazia di essere Chiesa», si avvia la relazione del vescovo Mario. .
«Il tema della sinodalità – spiega – insiste sul camminare, ma essere Chiesa significa anche stare, radunarsi per lo spezzare del pane; la pratica sinodale mette in evidenza la comunicazione verbale e intellettuale, ma essere Chiesa significa anche azione, affetti, silenzi, abbracci; la pratica sinodale ha come obiettivo prendere decisioni, ma essere Chiesa significa anche fare festa e condividere le lacrime».
È proprio questo tema, in relazione alla disabilità, a chiedere di condividere «l’essere Chiesa in tutte le sue ricchezze, sottolineando alcuni aspetti che talora sono trascurati».
La seconda prospettiva, delineata dall’Arcivescovo, è il passare dalla “categoria” per forza generalista e teorica alla relazione personale.
«La categoria della disabilità è utile per rendere attenti ad alcune forme di differenza dentro la Chiesa e dentro la società. Tuttavia, nella categoria stessa vi sono persone e situazioni molto diverse. È pertanto necessario che, a livello di configurazione della comunità cristiana e delle sue attività, si consideri la categoria disabilità, ma a livello pratico occorre stabilire relazioni personali e considerare attenzioni specifiche alle persone con disabilità».
Infatti, «la relazione personale impegna a vivere situazioni diverse nelle diverse forme di disabilità, nelle diverse età della vita, nelle diverse situazioni sociali, geografiche».
Dalla relazione di aiuto alla condivisione
Terzo. «La disabilità è una categoria che mette in evidenza un deficit che caratterizza una persona e la relazione di aiuto come un supporto da dare. Si immagina, quindi, una relazione a senso unico. È ovvio, però, che la persona non si può definire per quello le manca, anche se la banalità e la superficialità favoriscono questa riduzione. Perciò, la relazione diventa una storia di condivisione di doni, di affetti, di pensieri, di sofferenze».
Soprattutto considerando che «le forme della condivisione sono molteplici e praticano diverse grammatiche che si imparano praticando la lingua e, insieme, studiando la teoria».
E se lo studio della teoria permette di programmare le attenzioni che la comunità e le istituzioni mettono in atto, la pratica della lingua si rende possibile solo nella relazione, sottolinea il Vescovo.
Emerge, così, il quarto e ultimo punto prospettico, perché «la generica e doverosa intenzione di creare le condizioni perché tutti si sentano portatori di doni, responsabili di talenti e mendicanti di un aiuto è un’opportuna tematica di studio, di riflessione, di programmazione, ma nella vita ecclesiale non è possibile limitarsi al principio e al generico ed è, dunque, necessario sperimentare e interpretare il quotidiano come scambio di doni».
Si tratta, insomma, di chiedersi quali siano le povertà della comunità cristiana per le quali le persone con disabilità possono essere un aiuto.
Da qui, alcune esemplificazioni molto concrete. «Per esempio, la lentezza: la fretta imposta dalle scadenze, dalle attese e pretese della gente è una forma di povertà, il culto dell’efficienza è una forma di presunzione; la lentezza di chi non corre, non impara con la prontezza di altri, suggerisce una considerazione più realistica e saggia del tempo e delle priorità. L’attività di una comunità non ha come obiettivo i risultati delle iniziative, ma la relazione che si stabilisce anche attraverso le iniziative, le feste, le organizzazioni».
E ancora fare attenzione all’essenziale. «La tendenza all’accumulo e alla sovrabbondanza delle cose, delle parole, delle programmazioni è una forma di ingordigia che rende obesa la comunità insostenibile il peso con il ridursi delle persone disponibili; la necessità di prendere le misure sui bisogni elementari, tipico della disabilità, consente di riconoscere l’essenziale e di prendersene cura.
Infine – prima della benedizione dell’Arcivescovo sull’assemblea – l’indicazione a considerare la competenza comunicativa. «La passione per la comunicazione del messaggio, per l’insegnamento della dottrina, che induce ad utilizzare i mezzi più consueti, è un appiattimento; l’attenzione a utilizzare la pluralità dei linguaggi verbali ma anche visivi, sensoriali di ogni senso, è più coerente con il desiderio di comunicare non la dottrina del Vangelo, ma il Vangelo stesso. Incrementare la competenza comunicativa della Chiesa significa imparare a raggiungere il destinatario, con i suoi tanti linguaggi, anche corporei, diversi».
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