Una Festa dei Fiori dedicata, in questo tempo di guerra anche nella terra del Signore, alla pace, alla speranza che vi sia pace. Quella pace dei cuori che si respira, tra i quadriportici dell’imponente complesso del Seminario arcivescovile di Venegono, dove, come tradizione, il secondo martedì di maggio va in scena – è proprio il caso di dirlo, per la festa che segue la celebrazione eucaristica – la Festa della Madonna dei Fiori, laddove i fiori sono i candidati al presbiterato: per il 2024, i 17 che diventeranno preti ambrosiani il prossimo 8 giugno in Duomo.
Con loro, a essere festeggiati, anche alcune classi di ordinazione presbiterale, dai 70 anni di Messa – gli ultimi a essere ordinati dal cardinale Schuster nel 1954 – ai 10, passando per i 65, 60, 50, 25.
Insomma, un momento sempre intenso nel quale il clero diocesano, stretto intorno all’Arcivescovo, si ritrova a partire dall’inizio della mattinata, dedicato alla riflessione, quest’anno, affidata al Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, collegato dalla sua sede episcopale, proprio per parlare della condizione attuale in Terra santa.
La situazione sociale e umanitaria
«Una situazione – chiarisce subito il Patriarca – molto difficile e pesante dal punto di vista sociale e umanitario, per gli ormai sette mesi di guerra. Un periodo lungo che qui si realizza per la prima volta. In questo momento», continua, «i palestinesi sono circa 5 milioni compreso la zona di Gaza, 3 milioni in Cisgiordania, 45.000 i cristiani».
Tutta gente che, prima del conflitto, viveva lavorando in Israele, o che era occupata nel turismo. «Ovvio che adesso sia tutto fermo. Ogni giorno ci sono scontri diffusi tra i coloni, i militari e la popolazione palestinese. I permessi per passare da una parte all’altra sono stati cancellati e, oltre la guerra, vi verificano situazioni surreali, con conseguenze soprattutto sulle famiglie. Così si stanno segnando in maniera, non voglio dire irreversibile, ma molto profonda i rapporti tra israeliani e palestinesi», ammette Pizzaballa, che spiega.
«Tutta la parte al centro e nord di Gaza, dove vive mezzo milione di persone, è distrutta, scarseggia l’acqua, che è comunque fonte di malattia, tanto che tutte le nostre suore di Madre Teresa di Calcutta si sono ammalate di epatite. I bambini orfani sono migliaia e così i mutilati e, in questo momento, non siamo nemmeno in grado di definire la portata reale della situazione. Anche in Israele, la zona sud del Negev, è bloccata per la guerra e, nella striscia nord al confine con il Libano, sono stati evacuati mezzo milione di israeliani, per i razzi lanciati dagli hezbollah: una situazione del genere non era mai stata prevista».
In tutto questo, per il Cardinale, la grande assente è la politica. «Non si vede né quando né come finirà e, soprattutto, come sarà il dopo, perché cosa si fa “dopo” non lo decidono i militari, ma la politica. Vi è un’evidente mancanza di leadership e né Benyamin Netanyah né Abu Mazen, che non si capisce chi rappresenti, possono essere il futuro. Questo rende tutto molto più complicato. Il governo israeliano non vuole la soluzione dei due Stati, non dice però cosa vuole e il negoziato tra Israele e Hamas, che passa attraverso l’Egitto e gli Stati Uniti, in sostanza è in stallo e si stanno cercando altre soluzioni».
Il pensiero del Porporato, va all’azione e al ruolo della comunità cristiana «che vive, anch’essa un momento difficilissimo».
Il ruolo dei cristiani
Come ben si comprende, considerando che la Diocesi guidata dal cardinale Pizzaballa si estende su 4 realtà: Israele, Giordania, Palestina e Cipro.
«Parlare di unità nella vita della mia Diocesi è complicato anche perché i confini sono chiusi. Tecnicamente non è possibile avere un incontro con tutti e l’unico elemento di unità sono io che posso viaggiare».
«Anche tra noi – non si nasconde – ci sono sensibilità diverse, con parroci che, magari, in parrocchia hanno ragazzi in carcere accusati di essere troppo filopalestinesi e altri che sono sotto le armi. Il rischio è che ciascuno si chiuda nella sua visione. Come cristiani dobbiamo tenere confini aperti, dire la verità, non per buonismo, ma con parresia. È vero che Gesù unisce, ma ognuno vive la fede in modo differente, e ci salvano i tanti dalla fede semplice che vogliono solo andare in Chiesa e pregare, lontano dalle elaborazioni politiche».
Gente che prega e aiuta. «Come Chiesa siamo attivi nel supporto umanitario, specie per chi è rimasto senza lavoro in Cisgiordania, in modo semplice e informale. A Gaza, invece, si tratta di assistenza pura, sostenendo in tutto chi, ad esempio, ha trovato rifugio nel nostro complesso cattolico della Sacra Famiglia, circa 500 persone cui se aggiungono 200 nel vicino complesso ortodosso. La rabbia è comprensibile, ma occorre andare oltre».
Dove incontrare, allora, Cristo risorto? «Nelle tante persone cristiane, ma non solo, che vogliono fare qualcosa, non si arrendono e vivono, comunque, gesti di amicizia. Lì vedo piccoli segni di speranza da cui si potrà ripartire. Ci sono ancora le persone che vogliono la pace, ma occorre cercarle e tenerle vicine, perché dopo avremo bisogno di loro. Cerchiamo, anche se siamo pochi, di fare la differenza, con il desiderio forte di esserci», conclude Pizzaballa.
Le parole dell’Arcivescovo
Al termine del collegamento, il grazie, a nome dei presenti riuniti nell’Aula Paolo VI, viene dall’Arcivescovo.
«Grazie, lei interpreta i sentimenti di tutti. Nel presbiterio diocesano c’è gente che vuole molto bene alla Terra santa e che spera di tornarvi. Di fronte alla situazione descritta che ci spezza il cuore, credo che i preti possano offrire solo il nostro essere uomini di pace, che pregano per la pace in questa Babele in cui prevalgono spesso parole che non possono essere coerenti con il Vangelo. Continuiamo a credere che nel cuore di ogni uomo ci sia il segno di Dio e, quindi, un seme di pace».
La Messa
Poi, la celebrazione in basilica dove il saluto è stato portato dal rettore, don Enrico Castagna. «Siamo radicalmente inseriti in un presbiterio, è la nostra casa, benvenuti, diaconi, nella nostra famiglia presbiterale», dice, in apertura della Messa concelebrata 300 sacerdoti, 5 vescovi, tra cui monsignor Erminio De Scalzi, nel 60esimo di Ordinazione presbiterale e XXV episcopale, monsignor Roberto Busti, anche lui nel 60esimo e monsignor Franco Agnesi, 50 anni di Messa e 10 da vescovo.
Dalla I lettura tratta dagli Atti degli Apostoli 1,12 prende avvio l’omelia.
«Giustamente ci si può domandare come mai fossero presenti nella stanza al piano superiore Giuda figlio di Giacomo, Simone lo zelota, Giacomo figlio di Alfeo. Gente di cui non si sa nulla, gente che non ha mai fatto niente che meriti attenzione, uomini che non hanno mai fatto un discorso memorabile. Rappresentano i preti e i vescovi qualsiasi, quelli che hanno incarichi qualsiasi, quelli che non scrivono libri, non sono citati in eventi pubblici. Gli uomini qualsiasi sono quelli chiamati da Gesù: sono presenti perché Gesù ha desiderato averli vicino, chiamarli amici. E Maria, una qualsiasi donna di Nazaret, parla con loro, si intende facilmente e parlando li invita ad essere perseveranti e concordi nella preghiera. Maria, semplice ragazza di Nazaret canta per gli uomini qualsiasi il suo cantico».
Ma come potevano essere concordi «Bartolomeo e Matteo, il progressista e il tradizionalista, Giacomo e Andrea, quelli del protagonismo, Filippo e Tommaso, quelli che hanno sempre obiezioni e dubbi, gli intellettuali incontentabili? Stavano insieme, perseveranti e concordi nella preghiera, Pietro e Giovanni il giovane e il vecchio». Poterono perché c’era Maria per invocare una sapienza più alta, non la sapienza del mondo, ma la stoltezza della croce.».
E così, suggerisce il vescovo Mario, Maria accompagna anche noi «in questa transizione perché possiamo camminare insieme, essere lieti di appartenere a questa Chiesa e a questo presbiterio, lasciandoci ispirare dalla sapienza che viene dall’alto, dalla fede che si fonda sulla parola della croce».
Infine, nel grande quadriportico all’aperto, la presentazione dei candidati, impegnati in una simbolica caccia al tesoro per trovare simbolici frutti. «Andate e portate frutto, mi auguro che possiate raggiungere grandi frutti», l’auspicio finale dell’Arcivescovo.