L’uomo sofisticato del Terzo millennio, «che con troppa facilità si dichiara agnostico, magari ateo, mentre spesso è solo immerso in un ovattato oblìo». Quello che «crede di non credere, ma in mille modi resta sensibile al Dio di misericordia, al Cristo che si fa uomo di dolori scegliendo, innocente, di morire, tra atroci sofferenze sulla croce, che è la gloria.
Nel momento più terribile del dolore e della morte, della Passione e della Deposizione del Signore, la certezza della Risurrezione parla, comunque, al nostro cuore, pur nelle tragedie che stiamo vivendo.
È Venerdì santo e il cardinale Scola, che presiede il Rito in Duomo, concelebrato dall’intero Capitolo metropolitano della Cattedrale di fronte a migliaia i fedeli, fa memoria dolorosa dei momenti della “Pasqua di Crocefissione”.
I gesti, la liturgia: tutto richiama il sacrificio di Gesù, il Rito della luce che rischiara le tenebre, l’Inno, la prima e la seconda Lettura dal Libro del profeta Isaia, il canto davanti all’altare del “Tenebrae” tipico ambrosiano, il Vangelo di Matteo, che riprende dal punto in cui si era interrotto nella celebrazione in “Coena Domini”.
L’Arcivescovo proclama solennemente la pagina evangelica – è l’unica volta che avviene durante l’anno, per un un’antica tradizione della Chiesa Cattedrale – e nel momento in cui “Gesù gridò a gran voce ed emise lo Spirito”, in Duomo scende l’oscurità, ci si inginocchia e si spoglia l’altare.
Ma «quanto ha patito Gesù?». Questa la domanda, nota Scola, che «non troverà mai risposta esauriente».
«Ogni volta che ascoltiamo il dettagliato racconto delle sofferenze esso provoca la nostra commozione. Istintivamente, siamo tentati di distogliere lo sguardo da Gesù tradito, afferrato dall’angoscia, abbandonato da tutti, catturato con la forza e consegnato a un tribunale; incatenato, schiaffeggiato, incoronato di spine tra gli scherni e gli sputi, sommerso dalle urla di una folla inferocita». Un martirio, quello del Dio fattosi uomo, accettato consapevolmente e che premette di dire che «non c’è sofferenza fisica, psichica o spirituale che non trovi il suo punto di inserzione nella Passione del Signore. Ogni sofferenza umana è portata, accolta, abbracciata dalla Passione e Morte del Figlio di Dio».
Allora, che fare di fronte alla moltitudine dei “venerdì santo” di ogni epoca, a quelli che paiono non avere fine?
Guardiamo il Crocifisso: «Contemplandolo, nel giorno del grande silenzio, si comprende la grazia dei tanti martiri del nostro tempo. Si comprende la scelta di donne e uomini di consacrarsi nella verginità, si comprende l’amore casto dei giovani, si comprende il matrimonio fedele ed aperto alla vita di tanti cristiani. Si trova qui la sorgente dell’inesauribile carità che, da duemila anni, guida la vita della Chiesa e di migliaia e migliaia di cristiani che si fanno carico della sofferenza degli uomini loro fratelli. Si comprende, nonostante tutte le nostre contraddizioni, il tentativo di attuazione di bene che ognuno di noi dona alla Chiesa», scandisce ancora l’Arcivescovo.
Uno stare «davanti al Crocifisso», che chiede, tuttavia, una consapevolezza, uno “stile” capace di riconoscere la nostra responsabilità personale di peccatori.
«Ma noi poveri uomini come possiamo vivere la responsabilità del peccato senza annichilirci nella disperazione? Riconoscendo l’abbraccio del Crocifisso, con la sola modalità che sia adeguata, «l’unica alla nostra portata: la gratitudine». Un “grazie” del cuore che si fa preghiera nell’adorazione della Croce che viene portata, poi, in processione, dall’ingresso fino all’altare maggiore; nella preghiera universale con le sue undici orazioni – che sembrano abbracciare il mondo intero, dal Papa ai fratelli maggiori ebrei, dai cristiani di tutte le Confessioni a chi non crede, dai governanti ai defunti -, per arrivare, infine, al ricordo della Deposizione del Signore simbolicamente rappresentata dal velo deposto sulla croce.