La presenza di Gesù nel nostro tempo: questo siamo noi in virtù della nuova parentela da Lui istituita. Ed è appunto a questa presenza viva che si rivolge il cardinale Scola, accolto da centinaia di fedeli giunti nella parrocchia San Giuseppe di Cologno Monzese, per la Visita pastorale al Decanato omonimo (Zona VII). In prima fila ci sono i sacerdoti, i sindaci delle di Cologno e Vimodrone (città che compongono il Decanato), i membri di Giunta, le autorità militari del territorio. Il decano, don Giuseppe Massaro, illustra la realtà del Decanato, con le sue sette parrocchie, per un totale di circa 65 mila abitanti e una presenza di stranieri che arriva anche al 13%.
Dall’articolazione in tre momenti della Visita – «fino alla fase di verifica che individuerà il passo da compiere» – e dalle ragioni della Visita stessa l’Arcivescovo avvia la sua riflessione, sottolineando lo stile eucaristico «con cui vivere ogni nostra assemblea ecclesiale, che non è mai una semplice riunione». Altrettanto chiaro è lo scopo da raggiungere: «Ridurre la frattura tra fede e vita in una situazione nella quale molti battezzati hanno perduto la strada di casa» e si nota «un cristianesimo vissuto per convenzione che ha perso la sua attrattiva». Infatti, «seppure vi è maggiore consapevolezza in chi partecipa oggi all’Eucaristia», la questione è che «uscendo di Chiesa, nel quotidiano, in cui Gesù è venuto per essere via, verità e vita, si dimentica il modo di affrontare i fatti con il Suo pensiero». Problema complesso e già evidenziato dal giovane don Montini nel 1934, ma ora divenuto in toto drammatico. Per questo, scandisce il Cardinale – cui è accanto il vicario di Zona, monsignor Piero Cresseri -, «deve crescere in noi il gusto e il desiderio di affrontare i problemi della vita alla luce del Vangelo. Sarebbe già un bel risultato se ciò avvenisse alla conclusione di questa Visita pastorale, indicando che Cristo è la ragione del nostro vivere, specie in questo cambiamento di epoca».
Poi, le domande. Ci si interroga sul concetto di persona in presenza del fenomeno di meticciamento di culture e di questioni scottanti come l’utero in affitto, il rapporto uomo-donna, la differenza tra i sessi. «C’è un filo unificante che collega queste problematiche, il “tu” che è la condizione per rispondere alla grande domanda di Leopardi: “E io che sono?” – spiega l’Arcivescovo -. Ognuno, anche chi pensa che, con la morte, tutto finirà nel nulla e magari cerca il suicidio assistito, ha in sé tale domanda, perché senza la relazione non si riesce a dire il nostro “io” fino in fondo. Di qualunque religione, etnia, censo essa sia, la persona ha dignità e un volto perché è creata a immagine del grande “Tu” che è Dio. In questa relazione con il Signore, lentamente, la singolarità, l’unicità di ciascuno di noi si rivela nella relazione umana. Per questo il nostro tempo ha l’urgente necessità di incrementare le occasione di ascolto e di proposta. Il cambiamento morale avviene per la promessa di una vita più piena che fa Gesù». E ancora: «In una società plurale dobbiamo riuscire a comunicare in cosa consista tale dignità della persona. Non è tanto da elaborazioni filosofiche, ma dalla testimonianza, fatta di generosità e di accoglienza, della capacità di donare il senso della vita, che nasce tale comunicazione».
Non molto diversa dalla prima, la seconda domanda: «Sulla cultura siamo già orientati verso il post-umano dove non esistono più limiti?». «L’idea di poter manipolare noi stessi con la grande massa di conoscenze che possediamo; il post-umano che crede che si possano abbandonare i valori – o viverli come a ciascuno piace – affidandosi soltanto ai risultati delle moderne scienze e alle tecnologie che ne conseguono, ci porta ad attraversare tutto ciò che abbiamo pensato essere l’umanesimo, per giungere al post-umanesimo e al trans-umanesimo. Ma che cosa vuole veramente essere l’uomo del Terzo millennio?». Se questa è la grande scommessa (pascaliana) odierna, il coraggio è «annunciare Gesù come il Salvatore in termini che cerchino di andare incontro a ogni interrogativo tentando insieme la risposta più adeguata. Per esempio, dire ai nostri contemporanei che la vita è sacra, significa parlare un linguaggio oggi compreso da pochi. Quindi occorre comunicare e farsi capire, perché ci sono questioni che non trovano risposta se Gesù non fosse venuto tra noi. Il nostro tempo è di grande prova, ma anche di squisita avventura». Il pensiero va a don Gnocchi che, pur nella desolazione della ritirata di Russia, riuscì a vedere gesti di bontà e che, tornato in patria, diede tutto se stesso per i mutilatini e gli orfani: «Nel deserto della società di oggi bisogna immettere la delicatezza di un gesto di bontà. Qui è il punto: chi può illudersi di poter sostituire con le tecnoscienze uno stile di vita di donazione e di generosità?».
Con Maria Grazia si parla di Caritas e delle scelte da compiere per una Chiesa aperta e in uscita. Il riferimento è, nelle parole di Scola, ai quattro “Fondamentali” di Atti 2, 42-47: «La Caritas è l’emergere, a livello di azioni, di un “fondamentale” della vita cristiana che deve riguardare tutti e non può essere delegato, perché l’educazione stabile al gratuito, alla carità, deve costituire la dimensione di base del cristiano. Da questo, poi, scaturiranno anche le opere specifiche della Caritas. Si tratta di far crescere le opere caritative, che nella nostra Chiesa sono impressionati per quantità, imparando ad affrontare il bisogno, così come faceva Cristo, dilatandolo in desiderio e aprendo al senso del vivere. Prima di tutto dobbiamo praticare il gratuito, secondo l’esigenza tipica dell’uomo capace di intelligenza, di spirito e di cuore, e in questo modo ci spalanchiamo a 360 gradi»
Infine, sulla famiglia e il ruolo dei laici: «Una delle più importanti e decisive responsabilità del laico sta proprio nel costruire la famiglia, proponendo la bellezza e il fascino dell’unione tra l’uomo e la donna, fedele e aperta alla vita. Questa è la famiglia soggetto di evangelizzazione. Dobbiamo incontrarci partendo dai problemi reali dei singoli con il pensiero di Cristo. È un primo ed elementare modo di aprire le porte, di uscire in questa situazione di insicurezza e di paura che sta provocando una vita blindata. Credo che la Pastorale familiare dovrà intensificarsi e divenire espressione massima della responsabilità laicale proprio perché le situazioni di difficoltà sono destinate a crescere. Ecco come si costruisce la parrocchia che è una famiglia di famiglie, e la famiglia stessa come Chiesa domestica, punto cruciale della Comunità educante».