Chi guarda d lontano, fisicamente e idealmente, il Santuario di Rho e ne vede la bellezza e l’imponenza – è uno dei luoghi di culto mariani più importanti d’Italia e dell’intera Europa –, forse non riesce a vedere, quanto, nel profondo, questo antico gioiello di fede e di cultura sia legato alle poco distanti e apparentemente estranee architetture di Expo. Ciò che unisce è il fattore umano, con le due tristezze e dolori, gioie e belle avventure.
La Santa Messa dell’Addolorata, in Santuario, presieduta dal cardinale Scola, che conclude l’anno di festeggiamenti e Celebrazioni per il Terzo centenario della fondazione della Comunità dei Missionari Oblati, è così anche un modo, bello e intenso, per ricordare a ognuno la grande e allargata parentela che fa fratelli e figli di unico Dio.
I Dodici Kyrie ambrosiani delle Solennità, aprono il Rito, concelebrato da oltre venti sacerdoti tra cui il Superiore dei Padri Missionari, don Michele Elli, nominato da poco anche Vicario episcopale della Zona pastorale Sesta, il vescovo Renato Corti, residente presso la Comunità, il Vicario episcopale di Zona Settima, monsignor Cresseri, Oblato, così come il Moderatore Curiae, monsignor Bruno Marinoni. Non manca il Decano di Rho, don Vegezzi. Molte le autorità militari e civili presenti, tra cui il sindaco di Rho, Pietro Romano. È, appunto, don Elli che, nel suo saluto, ringraziando per la presenza di tanti sacerdoti e dei rappresentanti istituzionali – «a dimostrare un clima di serena collaborazione» –, spiega: «Benvenuti a questa mensa, chiudiamo ufficialmente l’anno centenario, con una Celebrazione preparata da un’intensa preghiera, dalla riflessione e da un pellegrinaggio, compiuto, a piedi, ieri dal Santuario di Corbetta e al termine del quale arrivati qui eravamo in moltissimi a Messa, un bel segno».
«Voglio comunicare un sentimento: lo riassumo in una parola, “grazie” per i molti doni che la Divina Provvidenza ha dispensato al popolo santo di Dio, doni di consolazione, doni di consiglio illuminato, di dottrina certa, di fedeltà nei confronti della santa Madre Chiesa». L’invito è espresso da padre Elli con una preghiera «per rendere sempre adeguato alla realtà il nostro carisma: “donaci il pensiero di Cristo e il coraggio di lasciarci educare da esso”».
Del Santuario come di un luogo benedetto «a partire dal quale padre Giorgio Martinelli – il fondatore – diede vita agli Oblati Missionari di Rho, inviati per annunciare la forza della Parola di Dio e contribuendo a quella riforma della Chiesa così necessaria e attuale anche ai giorni nostri», parla il Cardinale.
Il grazie, da parte dell’Arcivescovo, è per gli Oblati e, attraverso loro, per tutti i fedeli che gremiscono il Santuario, «esempio anche artisticamente e architettonicamente di cosa sia stata la nostra Chiesa, ma sopratutto luogo di perdono e di misericordia. Questo essere guardati da Lui ha nella Vergine santissima, soprattutto Addolorata – a cui è dedicato il Santuario con l’immagine della Pietà, veneratissima da secoli – la via maestra che tutti cerchiamo nei tanti Santuari della nostra Diocesi. Una devozione che – annuncia il Cardinale – metteremo ancor più a fuoco dando loro il peso adeguato come luoghi penitenziali e per alcuni di “Porta Santa” per il grande Giubileo della Misericordia che papa Francesco ha voluto e a cui, come Diocesi, ci stiamo preparando».
Il pensiero è alla magnifica Liturgia della Festa dell’Addolorata con la Lettura delle Lamentazioni, quale preghiera funebre applicata alla Vergine, «per mostrare la potente e grande umanità dell’incarnazione del figlio di Dio che ha provato tutto ciò che anche noi proviamo, persino il peccato. Lui senza peccato, Lui che continua dalla croce, con le sue braccia allargate, ad attirarci tutti a sé».
Il rito dell’oblazione, che avviene subito dopo l’omelia, con cui padre Francesco Ghidini, già prete da dieci anni, dopo un quinquennio di preparazione e di vita presso al Comunità, esprime la solenne professione perpetua per diventare Oblato, fa osservare: «La scelta di padre Francesco, cosi felice e di buon auspicio anche per la società civile, significa donare tutta la vita in maniera pubblica, esplicita, definitiva e per sempre».
Parola, quest’ultima – scandisce Scola –, che fa paura all’uomo contemporaneo, il quale non capisce che senza il “per sempre” non si dà possibilità di amore, di conversione e, in ultimo, di compimento».
Insomma, di quella vita piena, pur con le sue inevitabili difficoltà, che ha il suo riferimento nella croce, sotto cui sta Maria, la Madre, tramite di misericordia al suo Figlio divino «La croce è la gloria, la risurrezione esplode dal crocifisso, ma la croce continua come compassione verso ogni uomo, qualunque sia la condizione in cui si trova. Sempre la compassione di Maria permette anche a chi è sprofondato nel male di poter trovare Gesù».
Se Paolo arriva a scrivere ai Colosssesi, “nel dolore, lieto” non vi è, infatti, «contraddizione, perché, dopo la croce di Cristo, si può stare lieti nel dolore. Ecco spiegata Maria sotto al croce, con la sua forza di fede perché ella sa confidare in modo totale nel suo Figliolo e vuole tenere fermo il suo sguardo. Questo è uno dei grandi pilastri che sostengono ed esprimono il genio del cristianesimo». L’essere, appunto, lieti nel dolore». «Semmai ciò che dobbiamo aggiungere è il dono totale della nostra persona e della vita perché il martirio fa parte del compito che Cristo ci ha lasciato. Non solo il martirio cruento, ma quello della pazienza quotidiana, dell’offerta delle gioie e dei dolori, nell’educazione dei figli, nel vivere le ferite morali, nella ricerca continua, anche nella pluralità, per costruire una società giusta e una vita buona. Dobbiamo portare fuori dal tempio, dalla chiesa, il gesto fondamentale che è l’Eucaristia: se non lo facciamo tradiamo Gesù, lo disincarniamo, perché egli è venuto per essere via, verità e vita».
Solo così, suggerisce il Cardinale, il culto e la vita diventano pieni e ci si educa al pensiero di Cristo, così come è delineato nella Lettera pastorale «che non è solo per i preti o i Consigli pastorali, ma per ciascuno di noi».
In conclusione, un’ultima notazione, in evidente collegamento al Vangelo di Giovanni: «La potenza quotidiana della fede è la comunione praticata, siamo uomini e donne liberi, fratelli, perché abbiamo in comune Cristo. Le nostre parrocchie e aggregazioni devono diventare segno vivido di questa nuova parentela che Dio ha creato, anche misurandosi con le nuove emergenze».
Immediato – e non potrebbe esse altrimenti – il richiamo all’accoglienza di chi è costretto a lasciare le proprie terre: «siamo fratelli e sorelle in Cristo».
E prima della festa intorno al Pastore, con un grande applauso perché domani l’Arcivescovo “compie” ventiquattro anni di Episcopato, la preghiera del Cardinale in ginocchio all’altare tridentino con l’immagine cinquecentesca della Pietà, che diede origine al culto nel Santuario.