«Il nostro è un dialogo franco e libero – e non accade sempre – che va alla radice dei problemi, proprio perché qui non si può parlare tanto per parlare».
Lo dice il cardinale Scola, «con commozione, amicizia e benevolenza verso i molti che hanno reso possibile questo incontro», ai detenuti della Casa circondariale di Busto Arsizio.
Il direttore, Orazio Sorrentini, il prefetto di Varese, Giorgio Zanzi, il sindaco della città, Gianluigi Farioli e il prevosto monsignor Severino Pagani, il cappellano, don Silvano Brambilla sono ad attenderlo con il Picchetto d’onore degli agenti della Polizia penitenziaria che ne saluta l’ingresso. L’Arcivescovo arriva in una giornata piena di sole, “fuori” – è proprio il caso di dirlo –, ma anche ricca di calore e di luce all’interno, per la pulizia, l’ordine con cui vengono tenuti i locali e soprattutto per il clima che si respira tra i reclusi che circondano subito di affetto e applausi il Cardinale. Nella Cappella piccola e graziosa, con le belle vetrate colorate, a dare il benvenuto è il Cappellano che definisce Scola, «nostro Padre e Pastore».
«Ricordatevi di noi quando tornerete ai vostri luoghi di vita, teneteci nel cuore e così ci sentiremo parte viva della grande famiglia umana», dice don Silvano rivolto ai presenti per l’occasione in questo penitenziario che oggi conta 304 detenuti, tutti uomini, alcuni in attesa di giudizio, quando solo fino a qualche mese fa erano oltre 400.
A tutti si rivolge direttamente la riflessione del Cardinale che presiede l’Eucaristia, dopo aver visitato il reparto di fisioterapia e riabilitazione che accoglie anche detenuti provenienti da altre carceri. Di fronte anche ai volontari, a tanti agenti della polizia penitenziaria con il loro responsabile, il vicecommissario Antonino Rizzo – ci sono anche i due seminaristi di IV e V Teologia che periodicamente svolgono servizio tra le celle –, l’Arcivescovo ricorda la Settimana santa e il sacrificio dell’Innocente assoluto, Gesù morto e risorto per ognuno. «Tutto questo ci dice che l’amore di Cristo non viene mai meno qualsiasi sia la situazione in cui ci troviamo, anche se si è chiusi a un’espressione totale della libertà, Sono felice che possiate trovare delle terapie e delle cure, che sia diminuito il numero egli ospiti, ma soprattutto capisco che questo è, comunque, un tempo di fatica e di affetti lontani. E vi invito, allora, a mettere questa sofferenza nelle mani del Signore».
Il lungo scambio della Pace, con il Cardinale che si porta tra le panche della chiesa e stringe la mano a ognuno dei carcerati è come la cifra simbolica del dialogo che inizia al termine della Celebrazione.
Una domanda per ogni Sezione del penitenziario: inizia Niccolò della Terza, che definendosi “diversamente libero”, chiede «come sia possibile tenere vivi affetti, legami e amicizie in prigione». Poi Tiago, della I, domanda «se è immaginabile incontrare e sentire Dio, tra le sbarre, e come anche la Chiesa può essere vicina a noi e alle famiglie».
Immediata la risposta dell’Arcivescovo: «Tutti abbiano esperienze dei legami affettivi di base e nella famiglia; nessuno può negare questo legame divenga così un grande fattore per la nostra crescita e maturazione umana. Noi tutti, siccome alcuno può nascere a da se stesso, è, dal concepimento, inserito in una serie di rapporti e accompagnato da questi. Perciò, ogni uomo – quando lavorate insieme, siete nella stessa cella o è il momento nella giornata di scambiare qualche parola – può dire se stesso se non “in relazione”. Questo primo elemento è costitutivo».
E se, dunque, la nostra natura possiede un aspetto «comunitario», la libertà, nel senso profondo della parola, non può mai essere tolta a nessuno. «Tale aspetto profondo della libertà e l’aspetto più potente perché ci permette ogni altra scelta. Se nessuno può togliervi questa dimensione essenziale di libertà: gli affetti, anche se vedete raramente i vostri cari, sono qui condizionati, ma non possono essere annullati». Nella consapevolezza, tuttavia, che «il futuro è già qui e dovete giocarvi da adesso. La libertà negli affetti, posti di fronte alla prova, è, infatti, messa in movimento».
E, con alle porte, i giorni di festa, certamente ancor più dolorosi per chi vive recluso, il Cardinale scandisce: «Credo che si possano vivere i rapporti in profondità accettando l’elemento di sofferenza che è presente nella lontananza. Non c’è amore senza l’esperienza di un certo distacco e della rinuncia. Diventa, allora, importante come si vive il rapporto all’interno del carcere. Come non potete toccare o vedere i vostri cari, così non vediamo Gesù, ma se vivo bene la situazione dolorosa, questo amore cresce. Anche una prova dura come la vostra si trasformerà in un momento di maturazione. Ricordate che la vita vince sulle teorie e questa è la ragione della stanchezza della nostra Europa che ha puntato troppo sulla testa e poco sul cuore».
Poi, Claudio della II e Federico della IV Sezione – «è la diversità che ci aiuta a capire siamo tutti fratelli e, qui, siamo dei privilegiati, perché ogni giorno condividiamo la diversità» – a cui Scola dice: «L’esistenza non tocca la maturità se non ci mette in discussione. Commettiamo peccati, errori, reati, perché non accettiamo che l’altro sia diverso e vogliamo tenerlo in nostro potere. Invece l’altro è una ricchezza. Spesso facciamo finta di ascoltare, ma non ci lasciamo cambiare, mentre possiamo imparare da tutti. Questo è l’ascolto di fecondazione. Giustamente papa Francesco ha detto “non lasciatevi rubare la speranza”, ma per fare questo bisogna che il futuro sia già qui, nel mondo in cui siete inserti. Riempire bene il tempo, con il lavoro, con la lettura, imparando la lingua se si è stranieri, migliorando le conoscenze. Un luogo come questo deve avere un carattere di rigenerazione dell’io, più che medicinale. Ma ciò domanda due condizioni: il riconoscimento nella giustizia che il reato deve essere scontato – e in venticinque anni che visito, come Vescovo, le carceri, ho visto che questo è sempre compreso e accettato – e, inoltre, occorre giocare tutte le carte che avete a disposizione fin da ora. Se fate così il futuro ci sarà. Insieme dobbiamo agire perché il luogo in cui si sconta la pena sia di rigenerazione.
Poi i doni – un pane fatto nel laboratorio di panificazione e alcune uova e campane di cioccolato erano arrivati, insieme ad altri, durante la Messa – con la “Voce libera” il giornale «non vittimistico» del penitenziario, anno Zero numero 1.
Infine, il breve dialogo con i reclusi del T.A. , il Trattamento Avanzato, ossia la sessantina di coloro che lavorano come pasticceri (tra cui molti saranno impegnati in Expo, per presentare con gli ospiti di altre Case come Bollate i prodotti, anche attraverso le preparazioni senza glutine, richiestissime dal mercato).
Qui il discorso è tutto al domani e alla speranza di un indulto, magari in occasione del giubileo, come suggerito da papa Francesco.
«È assolutamente necessario che cambi l’immagine del carcere – nota il Cardinale – e che si possa magari pensare a forme alternative, come avviene in Nord Europa. Valorizzate tutto quanto è messo a vostra disposizione e domandate che la società ripensi le modalità di detenzione. Lavorare e vivere qui e ora con la libertà profonda che nessuno può negarvi è il modo migliore per non farvi rubare la speranza come dice papa Francesco. Penso che sia giusta l’esigenza, per alcuni reati, di un Giubileo inteso come perdono. Per quel poco che potrò fare mi muoverò in questo senso, nei termini consentiti dalle leggi e dalla condizione italiana».
E, prima di un’ultima consegna, paterna, a «vivere bene il tempo della prova», tra fotografie di gruppo, altri doni di cioccolato che ricordano i palloni di calcio (interessante ricordare, come fa il direttore Sorrentini che l’ultimo indulto fu in coincidenza della vittoria ai Mondiali di calcio nel 2006, per la precisione il 29 luglio), l’offerta che l’Arcivescovo lascia per l’acquisto di libri, e l’immagine con la Madonnina e la preghiera da lui composta in onore della Madonna, offerta anche a un detenuto musulmano, che la accoglie con un sorriso.
Appunto perché la vita rincomincia dal lavoro e dalla speranza in un domani migliore che è già oggi: per tutti, fratelli sotto lo stesso cielo.