Lo scambio della pace e il silenzio, con cui si fa memoria delle vittime degli attentati di Bruxelles, aprono la Visita pastorale feriale al Decanato di Bollate, il terzo della Diocesi per le sue dimensioni, con 21 parrocchie e 4 Comunità pastorali, un territorio diffuso su 7 Comuni, per un totale di 150 mila abitanti. «Vogliamo affrontare la sfida tra una realtà dalle forti radici cristiane e ciò che ci viene dal presente postmoderno, proprio per passare dalla fede per convenzione a una per convinzione», spiega don Maurizio Pessina, parroco di San Martino e decano, illustrando il Decanato ricco di iniziative e strutture, avviate attraverso «un’attenzione che si fonda sulla comunione». Accanto a lui il vicario episcopale di Zona IV, monsignor Giampaolo Citterio.
«Vorremmo che questo fosse un gesto che si iscrive nella vita normale, coinvolgendo sempre più ognuno di voi – sottolinea il Cardinale, rivolgendosi alle centinaia di fedeli che affollano il teatro Splendor, Sala della comunità di San Martino -. Per questo abbiamo voluto “capovolgere” l’andamento tradizionale della Visita pastorale dell’Arcivescovo che, invece di concluderla, la inizia. Starà poi a voi affrontare, in una seconda fase, un problema specifico e, nella terza, individuare realtà per realtà – parrocchie, Comunità pastorali, Decanato, associazioni – i passi da compiere».
«Noi siamo Chiesa – aggiunge – e il modello del nostro incontrarci deve essere l’Eucaristia, che si snoda dalla confessione all’ascolto della Parola di Dio, per lasciarci infine incorporare a Cristo che, proprio in questa settimana, patisce, muore e risorge per tutti. E ciò per mettere in moto una domanda di cambiamento che può partire solo dal riconoscimento del nostro peccato. Dobbiamo vivere ogni incontro secondo tale stile eucaristico, che ha come mèta l’educarsi al pensiero di Cristo. Una mentalità che manca perché non sentiamo più l’appartenenza forte alla comunità dentro cui la libertà si gioca fino in fondo. Si crea così quella frattura tra fede e vita che è il vero dramma dell’uomo di oggi».
Poi, subito, il dialogo: «Come si può fare delle nostre comunità un luogo di educazione al dialogo?», «Come essere “Chiesa in uscita” per portare il Vangelo nelle strade del mondo?». Interrogativi che l’Arcivescovo situa, entrambi, nel quadro della situazione attuale: «Dobbiamo affrontare il cambiamento radicale in atto, doloroso per le dimensioni tragiche che sta assumendo. Basti riflettere sulle scoperte della biotecnologia e delle neuroscienze, sul mutamento della cultura del lavoro e del rapporto tra economia e finanza, sulla questione dell’evoluzione dei temi affettivi, sulla civiltà delle reti e il meticciamento di civiltà». In questa logica, per “uscire” nel campo che è il mondo, suggerisce allora Scola, tocca a noi fare il primo passo nel quotidiano: «Pensiamo a ciò che è accaduto in queste ore: se le cose sono andate come a Parigi, chiediamoci come giovani che sono nati, hanno studiato e lavorato in Europa, hanno avuto come unico ideale impazzito buttar via la propria vita per ammazzare altri. Questa è una provocazione di Dio alla nostra esistenza».
L’Arcivescovo cita don Gnocchi, che dalla Russia scriveva: «Ho sempre cercato le vestigia di Cristo durante la vita terrena, con avida e insistente speranza». «Di tale “insistente speranza”, abbiamo bisogno – rileva -. Il primo modo per “uscire” è vivere così, attraverso il valore e il senso che la fede offre anche al gesto più semplice. Perché la giornata sia secondo il pensiero di Gesù, come raccomanda Massimo il Confessore, lo dobbiamo pensare contemporaneo a noi». L’invito è a percorrere tutte le vie dell’umano, «cosa, tuttavia, impossibile senza la vita di comunità»: «I due poli – libertà personale e comunità, io e noi – devono essere sperimentati insieme, perché una comunità che non fa fiorire la libertà non è autentica e una libertà che non partecipa della comunità si fa asfittica e narcisistica. La creatività viene da una fede vissuta con libertà e passione per l’insieme. L’alternativa a questo è il lamento e la depressione». Come a dire che l’“uscita” non è una strategia che si inventa a tavolino, proprio perché non esistono i lontani e tutti, in quanto umani, condividiamo le stesse esperienze di base, la vita, la morte, la differenza sessuale…
Si prosegue con le domande sull’interazione tra pastorale giovanile e familiare e sull’esperienza di una coppia fidei donum che vive nella canonica della chiesa sussidiaria di San Giuseppe e a cui è stata affidata l’animazione cristiana di un quartiere di Bollate: «Ho subito apprezzato e approvato la scelta che avete intrapreso. È una novità feconda che credo dovrà essere incrementata. La Chiesa ha bisogno di ciascuno di noi. I fedeli laici non sono clienti, ma soggetti. Non si tratta solo della diminuzione dei preti». Un protagonismo sano da vivere anche in famiglia, vista come «soggetto di evangelizzazione, come è emerso dai due recenti Sinodi». Chiara la consegna: «La famiglia come chiesa domestica – espressione pur ripresa dal Concilio – è rimasta troppo sulla carta. Riunirsi in tre o quattro famiglie in una casa, dialogando a partire dal bisogno personale e concreto di chi partecipa e cercando di valutarlo secondo lo sguardo di Gesù, è la via per realizzare la Chiesa “in uscita”. Occorre basarsi su una trama di rapporti veri e belli nella comunità che regge, sorregge e, se necessario, corregge». Così si affrontano, indica il Cardinale, i problemi dell’educazione all’amore e alla sessualità e le difficoltà familiari: «La Chiesa accoglie tutti in un abbraccio di misericordia: non dobbiamo coprire i problemi, ma affrontarli con parresìa. Se tutti i gruppi familiari mettessero in moto un dinamismo di questo genere, l’uscita diventerebbe capillare».
Si torna agli interrogativi: oratorio e, in ultimo, gli strumenti della comunicazione. «I problemi dell’iniziazione vengono dalla frammentazione; perciò abbiamo proposto la Comunità educante come autentica alleanza educativa tra i soggetti che hanno a che fare con la formazione giovanile. In questo dobbiamo giocare la grande “carta” dell’oratorio estivo. La questione è avere il coraggio pedagogico di affrontare le problematiche reali dei ragazzi con chiarezza della proposta». «Gli strumenti comunicativi sono fondamentali, ma vanno usati con sapienza e equilibrio – conclude -. Mi piacerebbe che i nostri bollettini avessero magari una nota comune, come avviene negli Stati Uniti, su qualche problema di attualità. Comunichiamo la bellezza della nostra esperienza in maniera attrattiva, sapendo che, comunque, essi non sostituiscono il rapporto personale».