Un luogo di grande suggestione,
da conquistare solo a piedi,
dove il panorama si apre sulle cime innevate.
Fondato dai benedettini,
gestito forse dai templari,
rifugio di moderni anacoreti,
il piccolo santuario mantiene ancor oggi
intatto il fascino dei secoli
testo e foto di Luca Frigerio
Aveva abbandonato tutto, Alessandro. Da un giorno all’altro, senza guardarsi indietro, senza dare troppe spiegazioni. Alcuni amici gli avevano detto che era pazzo; altri, quelli più cari, non avevano saputo dirgli nulla. Sua madre piangeva, suo padre lo guardava con rancore. Come! Dopo tutto quello che aveva fatto per lui, dopo i soldi che aveva speso per farlo studiare… E le terre, ora, a chi le lasciava? E ai poderi, chi ci avrebbe badato?
Andava a fare l’eremita, lui. «Bella roba…», commentavano alcuni in paese, con cattiva ironia. Se aveva davvero la vocazione, si bisbigliava, perché non si era fatto prete? O frate? No, quell’Alessandro lì non doveva essere troppo normale. Aveva qualche problema, era chiaro! Uno mica lascia la famiglia e i denari per andare a rintanarsi in cima a una montagna, da solo, come un animale… A meno che non voglia nascondersi da qualcuno, a meno che non abbia fatto qualcosa di cui vergognarsi…
Ma voci e pettegolezzi non riuscivano a salire fin lassù, tra le mura della chiesetta dedicata alla Vergine. Alessandro Carnizzari si sentiva in pace, con se stesso e con gli altri. Guardava le montagne davanti a lui, alte, forti, maestose, inondate da un cielo di luce, accarezzate da un azzurro pastoso. E più sotto il lago, tremulo di migliaia di stelle. Sì, qui avrebbe trovato quel Dio che cercava. Quassù la sua sete d’infinito si sarebbe finalmente placata.
Presso il santuario di Santa Maria sopra Olcio, all’interno della sponda lecchese del Lario, Alessandro rimase per tutto il resto della sua vita. Una vita lunga, e forse felice. Seduti sui gradini della cappella, ce lo immaginiamo intento a riparare il tetto e le mura dell’antico ospizio montano, a strappare al magro orto il poco per una zuppa, a pregare, a lodare, a invocare, con gli occhi colmi di letizia, con le braccia aperte al Creato.
Oltre duecento anni sono passati da allora, ma poco è cambiato in questo luogo dove cielo e terra si incontrano. La salita da Sonvico, frazione di Mandello, non è lunga, né difficile. Un sentiero di pietra, modellato da migliaia di piedi, accompagnato in principio da viti e ulivi, ombrato poi da fitti alberi che s’aprono a tratti, mostrando i monti e il sole. E ogni cento passi una croce, moderna, semplicissima Via Crucis a indicare la strada, a fare di una passeggiata nel verde, per chi vuole, un cammino di fede.
Sì, Alessandro Carnizzari dovette darsi da fare, quando giunse qui in alto, attorno al 1750. La chiesa era antica, antichissima, ma abbandonata da tempo. Un papa, Enrico III, nel 1145 le aveva concesso privilegi straordinari, ricordandola come consacrata al nome di Maria, riconoscendole un ruolo significativo, fondamentale persino, quale luogo di culto e di ristoro per coloro che dalla Valsassina si spingevano al lago, e viceversa.
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