«Un momento intenso, promettente, consolante»: così l’Arcivescovo ha definito la celebrazione penitenziale per il clero in Duomo, con una presenza numerosissima di presbiteri cui si sono aggiunti i diaconi permanenti, provenienti dall’intera Diocesi.
Aperta dal saluto di monsignor Ivano Valagussa, vicario episcopale per la Formazione permanente del Clero, la celebrazione si è articolata attraverso l’ascolto della Parola Dio, la preghiera, il canto e il raccoglimento, vissuti nei passaggi della Confessio laudis, Confessio vitae – con un primo intervento dell’Arcivescovo -, della confessione individuale e infine dell’Actio, con una seconda riflessione arcivescovile e tre testimonianze.
Il valore della preghiera
Nell’intervento per la Confessio vitae (leggi qui) l’Arcivescovo parte da un ricordo personale: «Quando mi capitava di visitare i preti più giovani, per le mie precedenti responsabilità, guardavo sempre nelle loro case i segni di devozione, dove immaginavo loro pregassero in forma raccolta e personale. Trovo che questo sia un modo per accogliere Gesù e la sua Parola: “Rimanete nel mio amore”. Per me è commovente pensare che un nostro confratello, don Simone Vassalli, sia morto mentre pregava la liturgia delle Ore nella cappellina ricavata in casa sua (leggi qui la cronaca dei funerali). Noi siamo gente che rimane in Gesù, gente che prega anche quando la gente non lo sa; gente che si rammarica di non pregare abbastanza; gente che ama pregare, che sa pregare, che vorrebbe insegnare a pregare. Forse non siamo soddisfatti della tenacia del nostro rimanere, della purezza di cuore del nostro pregare: anche la preghiera è invasa da pensieri che non c’entrano, è mortificata da tutto il resto. Però io sono confortato al pensiero che molti di noi siano uomini di preghiera e che, nella preghiera, don Simone ha visto il velo squarciarsi e contempla Dio così come egli è».
Una gioia piena
Sempre dalla propria esperienza si avvia la seconda indicazione dell’omelia: «Quando io chiedo a un prete che conosco come stia, mi risponde sempre: “Dire bene è dire troppo poco”, anche se vive da anni tra gente tribolata e malata e, in questi tempi, si è incurvato e indebolito. Poi ci sono quelli che rispondono diversamente, forse feriti da qualche vicenda per cui devo chiedere anch’io perdono perché, magari, a ferire è stata una mia parola, decisione, omissione, dimenticanza».
Eppure, «c’è una gioia che viene da segrete profondità dove abita lo Spirito di Dio che continua a sgorgare anche quando tutto sembra fatto per contrastarla. È Gesù che semina in noi le sue confidenze. Il riferimento è alle parole di Giacomo: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla”. Non tutti dimoriamo nella perfetta letizia. Anche se ci sono buone ragioni per la tristezza, chiediamo perdono per la nostra letizia imperfetta. Tanti preti vivono giornate frenetiche, tra mille impegni, ma ogni tanto vanno a trovare dei confratelli, magari senza alcuno scopo preciso, desiderando fare solo una visita di amicizia e di consolazione a preti anziani o resi fragili dalle malattie. Pregano, non danno giudizi e tornano a casa dicendo il Rosario. Io riconosco in questo il comandamento in cui Gesù ha racchiuso tutti i profeti: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”. Faccio l’elogio dei preti che si prendono cura gli uni gli altri. Quelli che, pur essendo diversi, cercano di volersi bene».
Da qui tre domande: «Sto diventando uomo di preghiera? Riconosco la verità della Parola di Gesù che mi dà la sua gioia piena? Ho cercato di essere amabile, di rendere facile agli altri volermi bene?». E poi tre parole-chiave lasciate ai confratelli: «Rimanere, la gioia, l’amabilità».
Poi – dopo la confessione reciproca dei preti, vissuta con semplicità in ogni angolo della Cattedrale – «un momento di silenzio pensando alla gente di Ucraina, ai nostri fratelli che sono Pastori in una situazione di morte e di disagio», come sottolinea monsignor Fausto Gilardi, penitenziere maggiore del Duomo e responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale Liturgica che introduce le tre testimonianze, chiamandole «confidenze fra pellegrini».
Le testimonianze
Alberto Bogdalin, 26 anni, da Busto Arsizio, aspirante magistrato, impegnato in varie realtà come l’educazione di giovani (leggi qui il suo intervento), racconta la vicenda di Martina (il nome è di fantasia), prima superiore, che ha cercato di suicidarsi: «Come lei ci sono tanti adolescenti con pensieri oscuri che, come sicari, attentano alla loro vita: non sono storie, ma realtà sempre più diffuse. Di fronte a questo bastano soltanto professionisti? Io oggi non ho davanti professionisti, ma uomini che hanno scelto il Signore, il cui compito è invocare lo Spirito e la vita. Abbiamo bisogno di una parola capace di sconfiggere la morte, di una persona che ha il potere di salvare, rendendoci figli di Dio. Abbiamo bisogno di uomini che incontrano e che si lasciano incontrare, non intellettuali, stakanovisti della pastorale».
È il turno di suor Margarida, una religiosa della Congregazione portoghese Alleanza di Santa Maria, ispirata alla spiritualità di Fatima, che con tre consorelle è stata accolta nella Cp Santa Maria Assunta di Cairate, Bolladello e Peveranza all’inizio di questo Anno pastorale (leggi qui il suo intervento): «Appena siamo arrivate ci siamo rese conto che la proposta del nostro Arcivescovo è veramente per una Chiesa unita. Questa unità la viviamo quotidianamente come studentesse del Seminario di Venegono, dove studiamo con i giovani che si preparano al presbiterato. La nostra partecipazione alla comunità ecclesiale non può che essere servizio».
Infine, una coppia di sposi, Marta e Alberto Scorsetto, genitori di Giacomo, Greta e Riccardo, che dopo aver invitato altre coppie a confrontarsi si chiedono: «Di cosa abbiamo bisogno? In questo spazio c’è anche Dio?». Chiara la risposta: «Gesù rispetta così profondamente l’uomo che dialoga con lui e chiede quali siano le sue fatiche. La nostra famiglia, come tante altre, sono impastate di terra, ma percepiamo l’infinito che dà un senso profondo all’esistenza. Stiamo nella vita ordinaria, insieme, per guardare l’orizzonte, come quando si sostengono molte conversazioni di vera fede davanti al supermercato o durante il lockdown. Sogniamo nelle nostre chiese celebrazioni capaci di raccogliere i nostri cammini della vita quotidiana. Le cose più belle e ricche che ricordiamo sono quelle non programmate, che ci hanno portato a grandi sfide, come quando ci siamo messi in cammino sulla via di Santiago con i nostri figli che hanno insistito per iniziare fin dalla prima tappa. La Chiesa senza le nuove generazioni non solo si estingue fisicamente, ma spegne la sua luce e si chiude allo Spirito che continua soffiare sulla storia del mondo» (leggi qui il loro intervento).
Il proposito quaresimale
A conclusione l’Actio che l’Arcivescovo propone a sacerdoti e diaconi: «Che non venga Pasqua senza un concreto gesto di riconciliazione con un confratello o, almeno, un tentativo amabile di riconciliazione». Il richiamo è alla beatificazione, ormai prossima, di don Mario Ciceri, il prete ambrosiano che con Armida Barelli sarà beatificato il 30 aprile: «Forse non saremo messi in evidenza come Mario Ciceri, ma la nostra santità tiene vive le nostre comunità. Siate quindi benedetti voi, santi preti di Milano».