Lo stile che ha caratterizzato il Pontificato di Benedetto XVI è quello dell’umiltà del cercatore della verità integrale. Il suo Pontificato è stato segnato dalla riaffermazione disarmata della verità intera. Laddove c’è in gioco la verità integrale dell’uomo, di Dio e della Chiesa.
Al di là delle separazioni
La verità integrale dell’uomo papa Ratzinger l’ha sempre cercata al di là delle scissioni che hanno segnato la cultura moderna: la separazione tra scienza e coscienza, tra etica e diritto, tra cultura pubblica e privato e ultimamente tra fede e ragione. Si tratta di scissioni che hanno impoverito l’umano, smarrendo, nella frammentazione dell’esperienza e nel relativismo culturale, il riferimento alla verità. Ma la grandezza dell’essere umano sta proprio nella sua relazione alla verità, nell’appello a uscire da sé, dalla propria misura, verso una verità più grande, di cui il cuore sente il bisogno. È quell’allargamento degli orizzonti della ragione che la fede custodisce e propizia. Nell’Enciclica Caritas in veritate (2009) questa preoccupazione viene applicata all’idea di sviluppo umano e in particolare alle promesse di una rivoluzione tecnologica, che spesso dimenticano il vero bene della persona e la giustizia sociale proprio perché riducono l’orizzonte dell’esperienza umana alla misura dell’homo faber. Si smarrisce così la dimensione contemplativa della vita, che fa grande la persona nel suo rimando al mistero trascendente, origine e fine della vita umana.
Dietro la scelta del nome
La verità integrale su Dio è il dono più bello che ci ha fatto Gesù Cristo. È la certezza che «Dio è amore» (si veda l’Enciclica Deus caritas est del 2005) e che il senso della vita per il cristiano rimanda all’esperienza dell’amore grande di Dio che illumina il cammino e unisce i cuori. Nel suo rimando a San Benedetto, il nome scelto da Papa, Ratzinger intendeva indicare proprio il primato di Dio nella vita cristiana. In due contesti ecclesiali risuona con forza questo appello alla centralità di Dio: nell’interpretazione della riforma della Chiesa al Concilio Vaticano II e nella sua comprensione della preghiera liturgica della Chiesa.
Il segreto del Concilio
Quanto all’ultimo Concilio Ratzinger ha sempre sottolineato che il segreto della riforma conciliare consisteva nel recupero del riferimento a Dio che la Chiesa sperimenta e testimonia. La Chiesa non è un’istituzione autonoma e con una finalità propria. Il senso della Chiesa è tutto relativo al Dio di Gesù Cristo e alla buona notizia che Dio è l’amore che vince la morte e ci invita a un esodo pieno di speranza, verso una pienezza di vita che tutti desideriamo, ma che non possiamo procurarci da soli (enciclica Spe salvi del 2007). Ne deriva che la preghiera liturgica della Chiesa deve essere tutta orientata a Dio, deve realizzare questo rimando teocentrico anche nella posizione del sacerdote che presiede il culto. Al di là della pertinenza della proposta, si comprende la preoccupazione del Papa emerito.
Una lezione ricca
Ma è possibile custodire questa verità integrale di Dio solo se si mantiene integra la fede in Gesù Cristo. È diventata quasi uno slogan provocatorio la frase di Benedetto XVI (Deus caritas est n. 1), citata da papa Francesco in Evangelii Gaudium n. 7: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva». I tre volumi dedicati a Gesù di Nazareth offrono, in questa prospettiva, una lezione ricca e promettente. Ci danno un ritratto coerente e plausibile del Maestro, illuminandone la vita e le parole con intuizioni limpide e profonde, nelle quali si gusta la conoscenza sapienziale di Gesù che ha animato la fede di Benedetto XVI.
Il mistero del Logos
Infine il magistero pontificio di papa Ratzinger ha cercato di custodire l’integrità del mistero della Chiesa. All’origine di tale mistero c’è l’incarnazione del Logos. La verità del cosmo e dell’uomo non rimane un ideale astratto, un progetto celeste lontano. Il Logos si fa carne, anzi si fa dono, si fa pane per nutrire l’uomo nella sua vita concreta. E’ quanto emerge dall’esortazione apostolica post-sinodale sull’Eucaristia (Sacramentum caritatis del 2007). E ancora, questo Logos si fa Parola di Dio nella Bibbia come strumento per una conversazione tra amici, anzi per un dialogo nuziale tra Dio e la sua sposa, che si compie nella lettura spirituale delle Scritture (si veda la Verbum Domini del 2010).
Sia la celebrazione eucaristica, sia la lettura spirituale delle Scritture realizzano un’esperienza concreta e viva di Dio e del suo amore nel Verbo incarnato per noi. La vita della Chiesa, così compresa, non è quella di un’istituzione da aggiornare o modificare. È invece quella di un organismo vivente che si rinnova nella continuità, piuttosto che nella frattura procurata da rivoluzioni o mutamenti radicali. Si comprende la sua sottolineatura del significato del Vaticano II nella logica dell’ermeneutica della continuità più che della rottura, una preoccupazione che ha segnato tutta l’azione pastorale durante il suo Pontificato, scontrandosi però con le crisi radicali di credibilità, dovute soprattutto agli scandali di pedofilia nel clero. I toni toccanti della sua Lettera ai cattolici di Irlanda del marzo 2010 rivelano tutto il dolore e lo sconforto per queste sconfitte e ci danno una qualche percezione del senso di fatica e sproporzione di fronte alla complessità delle sfide in gioco, che hanno portato alle dimissioni.
L’atto finale
La via d’uscita da queste crisi ce l’ha suggerita con l’atto finale del suo Pontificato: l’indizione dell’anno della fede, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013. Si tratta di riappropriarsi del grande dono della fede, che troppe volte è data per scontata: «Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo… Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone. Non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta (cfr Mt 5,13-16). Anche l’uomo di oggi può sentire di nuovo il bisogno di recarsi come la samaritana al pozzo per ascoltare Gesù, che invita a credere in Lui e ad attingere alla sua sorgente, zampillante di acqua viva» (motu proprio Porta fidei n. 2-3).
Il ritiro in silenzio
L’esigenza di custodire l’integralità della fede diventa esortazione a riscoprirne la forza ritornando all’essenziale, alla grazia grande del credere in Cristo come incontro personale e interiore, che cambia la vita. Ma è proprio l’esigenza di cercare l’essenziale che trasforma il servizio pubblico e universale del magistero pontificio nella solitudine di un ritiro nel silenzio e nella preghiera, alla ricerca di Dio, disturbato solo dai tanti incontri personali di amici vescovi, preti, teologi o semplici fedeli che nell’amicizia cercano di ritrovare lo slancio e la bellezza della fede. Ancora una volta e in modo nuovo ci viene proposta una riaffermazione disarmata e umile della verità integrale di Cristo, vero uomo e vero Dio, e della sua Chiesa.
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