Cinque parole per definire la condizione dell’Europa di oggi, tra cultura, culture e religioni. Nella Sala San Satiro della Basilica di Sant’Ambrogio che non riesce a contenere le tante persone giunte per ascoltare il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, molte le suggestioni che risuonano tra citazioni dotte, richiami alla situazione odierna, ricordi personali.
Si parte proprio dalla memoria dei tre incontri che Ravasi ebbe con il venerabile Giuseppe Lazzati, storico rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, padre costituente, combattente nella seconda guerra mondiale, resistente e figura di riferimento per quella “Città dell’uomo” che lui stesso volle fondare come ideale di un umanesimo cristiano sempre possibile. Occasione della serata è, infatti, la IX “Cattedra Lazzati”, come ricorda il presidente dell’Associazione “Città dell’uomo” Luciano Caimi.
La cultura come chiave per interpretare la realtà
Lazzati venne definito «mistico della concretezza» e Ravasi (che lo conobbe in casa dello scrittore e comune amico Luigi Santucci), nel nome di «questo grande uomo di Dio e della cultura», proprio dagli «infiniti percorsi e orizzonti» del termine “cultura” avvia la sua riflessione su “Cultura, culture, religioni per la Casa comune europea”: «Cultura è parola recente e difficile da definire. Inventata dai tedeschi illuministi del 1700 come settore esclusivo, alto, nobile ed elevato, tradì, in questa logica, il significato originario di humanitas latina e di paideia greca (educazione) che ne delineavano il carattere inclusivo e, quindi, di categoria antropologica». Un concetto, questo, trasversale – nella modernità, infatti, si è potuto parlare di cultura industriale o agricola – rispetto al quale forse anche gli intellettuali tedeschi tra Settecento e Ottocento si resero conto dell’insufficienza di una cultura europea statica e chiusa in se stessa, tanto che Goethe scrisse il suo famoso Divano Occidentale-Orientale includendovi la riflessione sulla poesia persiana e giapponese.
Da qui tre modalità differenti di interpretare la situazione odierna a partire dalla cultura stessa: «Multiculturalismo, ossia le diverse culture poste l’una accanto all’altra; interculturalità, che è dialogo, incontro, incrocio; inculturazione, che è un passo ulteriore». Ovvio che questo terzo orizzonte sia quello che meglio può delineare la possibilità di convivere come uomini tutti accomunati dalla «adamicità», cioè l’appartenere, ontologicamente, all’unica razza umana come figli dello stesso genere umano. Come scriveva Jorge Luis Borges, «la mia umanità sta nel sentire che siamo tutti voci di una comune indigenza», «che altro non è se non il comune, appunto, morire e soffrire, avendo la percezione del limite». Solo così si comprendono «le categorie dell’identità e della diversità, per cui dobbiamo saperci e poterci accogliere in queste due dimensioni, le sole capaci di superare indifferenza, identità assoluta, sovranismi, nazionalismi, integralismo. Su questo il cristianesimo, è stata una delle energie più potenti per sottolineare la diversità nella comune identità».
L’anima dell’Europa
E l’Europa? Anche in questo contesto il vocabolo ha una storia complessa: «Fu, infatti, Nicolò V (Papa fino al 1455) a riproporre questa dicitura subito dopo il crollo di Costantinopoli, in un momento in cui era evidente la necessità di ricompattarsi come identità». Il problema, allora come ora, rimane capire quale sia «l’anima di questa casa comune». Se ancora Goethe definì «il cristianesimo la lingua materna dell’Europa», «non possiamo, per questo, escludere l’apporto alla costruzione europea venuto dalla filosofia greca, dal diritto romano, dall’illuminismo liberale, dal socialismo ottocentesco e dall’intero, grande, arcipelago delle culture storiche come la latina, la germanico-baltica, la slava o la celtica». Basti pensare a ciò che Ravasi chiama «l’impressionante arcobaleno linguistico che connota l’Europa». Semmai si può considerare «il cristianesimo come il collante di un mosaico che ha nella Bibbia il suo grande codice e, per esempio, nei Salmi – come sottolineava Nietzsche -, il “fondale di riferimento”».
Cinque parole
Nascono in questa logica le cinque parole, o meglio richiami emblematici, che il Cardinale usa per dare un volto realistico e promettente all’Europa.
«In primis, il rapporto tra fede e politica: esiste un’autonomia della politica, ma vi sono valori che vanno salvaguardati, come la dignità della persona, e che sono intrinseci alla religione. Inoltre, la necessità di ritrovare la memoria. Chi non ricorda non vive: siamo in un’epoca di smemoratezza del nostro passato glorioso, per cui rischiamo di avere, di ciò che è stato, solo scorze vuote come le Cattedrali, che oggi sono il regno dei turisti».
E, ancora, l’indifferenza, la superficialità e la volgarità, «nelle quali siamo immersi come in una sorta di atmosfera. Non dimentichiamo che, dietro alla bruttezza estetica delle nostre periferie metropolitane, c’è la bruttura, questione che attiene alla morale. Se i ragazzi sono abituati per ore, ogni giorno, a vedere nel web immagini di bruttezze, diventano per forza vittime anche della bruttura»
Ovvia la conseguenza, come quarto elemento-chiave, la moralità come valore da coltivare: «Il compito proprio della fede». «Se la politica si è ridotta a gestione dell’immediato, anche in maniera sgangherata, la progettualità si costruisce sul diritto alimentato dai valori. Ben lo sapevano i Padri fondatori americani e i Padri costituenti della nostra democrazia come Lazzati».
Infine, il dialogo, «che non è sincretismo, identità esclusiva e omologazione, ma apertura consapevole e costruzione faticosa». Il riferimento è alla Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, con la raccomandazione: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono». «Occorre sostituire al “duello” il “duetto”, dove ognuno canta con la voce che gli è propria e, alla fine, si crea armonia. Questo è il grande impegno dell’Europa».
Magnifica la citazione finale dal testamento spirituale di Mario Luzi che si fa cifra simbolica dell’intero incontro, strappando un applauso prolungato: «Occorre credo una catarsi, una specie di rogo purificatorio del vaniloquio cui ci siamo abbandonati e del quale ci siamo compiaciuti. Il bulbo della speranza, che ora è occultato sotto il suolo ingombro di macerie non muoia, in attesa di fiorire alla prima primavera».