Un’assise colorata e variegata, laddove finora eravamo più abituati a pensare alla parola Sinodo collegandola esclusivamente ai vescovi. La cosa bella – e che non possiamo dare per scontata – è il fatto che tra le mille persone (300 le donne) che hanno partecipato a questa grande assemblea di delegati delle Chiese in Italia, c’erano vescovi, preti, diaconi permanenti, consacrate consacrati e soprattutto tanti laici. Anche il luogo scelto per l’assise mi è parso particolarmente significativo: infatti, la basilica di San Paolo fuori le mura fu la chiesa in cui, il 25 gennaio 1959, san Giovanni XXIII annunciava l’inizio del Concilio Vaticano II».
Lo sostiene monsignor Luca Raimondi, vescovo ausiliare, vicario episcopale per la Zona pastorale IV e membro della nutrita delegazione ambrosiana che ha preso parte, dal 15 al 17 novembre scorsi, alla prima Assemblea sinodale della Chiesa italiana. Con lui, tra i rappresentanti, altri 2 vescovi, il Vicario generale, monsignor Franco Agnesi, e il vicario episcopale per la Zona I, monsignor Giuseppe Vegezzi.
Quale è stata la parola-chiave dell’Assemblea?
Certamente la missionarietà, che non è un’attività, tra le tante della Chiesa, ma è ciò per cui essa è nata con il mandato missionario di Gesù: «Andate e predicate il mio Vangelo». La preoccupazione della Chiesa, in un momento come questo di coinvolgimento sinodale, non è tanto quella di conservare ruoli, ma di ritrovare uno slancio di annuncio, vivendo questa ora della storia che, come dice il Papa, è un cambiamento d’epoca che richiede la rivisitazione dei linguaggi e dei modi. La Chiesa non fa un un’opera di rivisitazione delle proprie strutture pastorali o anche materiali per trovare qualcosa di diverso, ma si mette in discussione per ritrovare il gusto dell’annuncio. Insomma, è un cambiamento non tanto per il gusto di cambiare le cose, ma per avviare processi. La parola “processo” – importantissima, a mio modo di vedere -, implica appunto che siamo inseriti in un cammino di confronto e di ascolto.
Conclusi i lavori plenari dell’Assemblea, come si prosegue?
Probabilmente si lavorerà per arrivare a un documento condivisibile che sarà ripreso nel corso dell’Assemblea generale dei vescovi della Cei che si tiene a fine maggio. L’auspicio è che l’episcopato italiano, dopo questo cammino durato anni, arrivi finalmente a dire qualche esito relativamente al percorso ecclesiale dei prossimi 5 anni.
E questo in collegamento con il territorio e le Chiese locali?
Ovviamente. Pensiamo anche solo alla Diocesi di Milano, dove decine di migliaia di volontari, si impegnano ogni giorno. Durante l’Assemblea, monsignor Erio Castellucci, che è presidente del Cammino sinodale, diceva che noi ci siamo abituati a fare indagini sociologiche del dato ecclesiale, magari valutando quanti fedeli vanno a Messa o quanti ragazzi frequentano gli oratori. Ma la sociologia non potrà mai raccontare di quelle persone meravigliose che vanno a trovare i malati o i poveri, di tanto volontariato spiccio di cui però è fatto il Vangelo, che corre e cammina nel mondo perché tante persone in silenzio lo fanno correre. E ricordiamo anche il valore aggiunto nella nostra Diocesi, in una tale prospettiva missionaria, dell’articolazione in Comunità pastorali e Decanati che, in una situazione come quella attuale, sono più capaci di fare rete di quanto sia possibile per una sola parrocchia o un singolo cappellano. Basti fare riferimento a quelle Comunità pastorali che hanno all’interno del loro territorio grandi ospedali, università, scuole.
È la grande rivoluzione evangelica…
Nel Vangelo vige un principio importante: la verità non si fa a colpi di maggioranza e non si impone perché è urlata, ma perché è ricercata, adorata e pregata. Per questo è essenzialmente missionaria e, oggi, possiamo dire sinodale. Ma per raggiungere pienamente tale fisionomia occorre, come ha osservato ancora Castellucci, una sorta di “cura dimagrante”, uno snellimento rispetto ad alcuni meccanismi che risultano ancora in parte bloccati come quelli che riguardano la condivisione della guida delle comunità cristiane e il ruolo delle donne, ad esempio. Uno snellimento nella gestione delle strutture e, più in generale nel rapporto con la società, non significa perdere spazi, ma guadagnare qualcosa passando dal «si è sempre fatto così» al «possiamo davvero cambiare».