Una vita spesa tra gli immigrati, quella di don Giancarlo Quadri, che il 1° maggio scorso ha lasciato l’impegno alla Pastorale dei migranti dopo 18 anni dedicati con passione alle migliaia di stranieri incontrati nel suo lungo ministero. La Diocesi lo festeggerà il 22 giugno per ringraziarlo del prezioso servizio; intanto già attende un nuovo incarico. La sua prima nomina come collaboratore della Pastorale dei migranti (che allora si chiamava Segreteria per gli esteri) risale al 1° settembre 1996; poi è divenuto responsabile il 1° gennaio 2001.
Che cosa ha significato per lei questo impegno?
La pienezza di un lavoro che ho svolto per tutta la mia vita sacerdotale. In 45 anni di ministero, neppure un giorno escluso, ho lavorato in un contesto di migrazione: i primi 12 anni a Pero con la grande migrazione dal sud al nord Italia; poi in Zambia; in Inghilterra tra i nostri connazionali immigrati; in Marocco per prepararmi al nuovo incarico e dal 1996 a oggi alla Pastorale dei migranti. Quest’ultimo percorso ha segnato la maturità che una vita sacerdotale in mezzo ai migranti mi aveva insegnato, oserei dire “migrante” io stesso se non fosse presuntuoso. Le due linee di impegno che il cardinale Martini mi dava al momento della nomina nel 2001 sono state la realizzazione di un progetto preparato da lungo tempo. La prima linea è la presenza di Gesù Cristo in mezzo a noi, che si rivela lui per primo migrante; la seconda, riuscire a cogliere nell’immagine dei migranti che ci circondano la presenza stessa di Gesù Cristo.
Da allora come è cambiata Milano in termini di accoglienza alle popolazioni straniere?
Il nostro piccolo o grande difetto è stato quello di non accorgerci che Milano cambiava molto con la presenza degli immigranti in mezzo a noi. Distinguerei tre fasi: un primo momento di entusiasmo, che ha preceduto il mio ritorno in Diocesi, dagli anni Ottanta fino al 1995. Le prime volte che tenevo conferenze nelle parrocchie sentivo commenti come: «Sì, bello, gli immigranti sono immagine di Cristo… Che cosa dobbiamo fare?». Ma quasi tutto si è risolto nel dare. Poi c’è stato un secondo momento, che ha segnato quasi un risveglio, un ricredersi, quando ci siamo accorti che questo non bastava: il migrante non aveva bisogno solo di aiuto materiale, ma anche di essere accompagnato e accolto. È stato il mio primo periodo di impegno.
E poi?
Nel terzo momento, che comprende anche quello attuale, alcune realtà ideali hanno fatto cadere molti di noi in una disillusione un po’ sterile con affermazioni come: “Forse è meglio che tornino a casa loro”. Questo dice un ripensamento e anche un piccolo rifiuto nei confronti del migrante. Oggi Milano non è più immersa nell’illusione, ma ha di fronte una grande occasione; si tratta di scegliere bene cosa fare in Pastorale dei migranti, decidendo di vivere insieme agli stranieri così come la Provvidenza ce li sta portando.
In questi anni le comunità non sempre hanno saputo coinvolgere gli stranieri nella vita pastorale…
In questo momento le parrocchie hanno davanti una scelta. Tante si stanno orientando a scelte non cristiane, non molto vicine al Vangelo. Però ci sono anche tantissime esperienze di comunità che accolgono veramente, in senso profondo, vivendo insieme la liturgia, la catechesi, la riscoperta del Vangelo e le giuste promozioni umane che sono necessarie.
Ci sono però alcune etnie meno disposte a mettersi in gioco…
È vero. Qui si aprirebbe un discorso molto ampio: la Pastorale vista dalla parte dei migranti. C’è un grande lavoro da fare perché non sempre la consapevolezza dell’essere cristiani si riflette in una disponibilità a integrarsi, inserirsi, a lavorare insieme. Siamo solo agli inizi della migrazione e siamo di fronte a un campo vastissimo in cui la Diocesi di Milano potrà lavorare ancora molto per una vita insieme.
Oggi l’emergenza profughi lancia una nuova sfida, non facile da affrontare con la crisi economica…
I profughi e tutti coloro che si stanno avvicinando per la prima volta alle nostre coste aprono a un nuovo campo di impegno. Se ci troviamo in questa situazione è perché l’esperienza passata non ci è servita per arrivare a un progetto vero, bello e preciso di accoglienza. Stiamo navigando a vista. Riflettere su questi primi 30 anni di presenza di migranti in mezzo a noi potrebbe aiutarci moltissimo, è quello che mi propongo anch’io, e poi trovare un’esperienza in cui mettermi a lavorare ancora nell’ambito migratorio.