Sono tre le accezioni della parola «basta» che, come un filo rosso, percorre la Proposta pastorale dell’Arcivescovo fin dal suo titolo (leggi qui). Da qui prende avvio don Alberto Cozzi, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e membro della Commissione teologica internazionale della Santa Sede, per riflettere sul documento.
Quali sono questi tre significati?
Il primo è quello più forte: «basta» come grido e protesta che, però, esprime anche un desiderio, la nostalgia di un’umanità vera che non è prigioniera del male. Il secondo livello è quello dell’esperienza, affidato a santi come Teresa d’Avila – che scrive: «Solo Dio basta» – o Ignazio di Loyola, con la sua famosa espressione: «Dammi il tuo amore e la tua grazia, questo mi basta». È un’esperienza di sazietà, di pienezza, del senso di una presenza che non lascia mai un vuoto. La grazia della presenza di Dio che basta a trovare la felicità, a dare significato alle cose. La terza accezione è quella che chiamerei della promessa, quando monsignor Delpini cita San Paolo nella Seconda lettera di Corinzi al capitolo 12. È interessante notare, a tale proposito, che Paolo affida al Signore stesso la dichiarazione della grazia che basta. Qui «basta» esprime una promessa e un impegno di Dio che ci ha chiamato, affidandoci una missione, cooperare a quanto sta operando nella realtà.
Questo terzo livello, in cui è insita la grande responsabilità umana, è il più complesso da comprendere…
A mio avviso è quello in cui la Chiesa si sente spesso insufficiente, non all’altezza delle sfide dell’epoca che vive, continuamente messa alla prova. Eppure è fondamentale ricordarsi che basta la grazia di Dio e che c’è una chiamata, una promessa che precede. Da questo livello torniamo, così, al primo, al grido, cioè al «basta» come desiderio di umanità piena. San Paolo parla del «ti basta la mia grazia», perché nella debolezza vede la potenza, la forza della risurrezione e la nostalgia della vita nuova, del nuovo Adamo, con la percezione che allora occorre dire basta al male perché possiamo iniziare qualcosa di nuovo. Questi tre livelli sono un modo molto originale di pensare all’azione di Dio, alla sua presenza nella nostra vita, al desiderio di nuovo e all’esperienza di una presenza che illumina e riempie di senso.
La certezza dell’azione di Dio nella storia permette anche di non fermarsi al lamento, che l’Arcivescovo ha più volte sottolineato e denunciato come uno dei mali del nostro tempo…
Puntare l’attenzione sull’essere diventati, come cristiani, una minoranza o sui fallimenti e le oggettive fatiche non deve distoglierci dalla concentrazione su ciò che Dio ci sta donando: la sua fedeltà. Quando si è troppo preoccupati della propria prestazione, non ci si accorge dei doni che comunque ci circondano e che ci accompagnano. Questo tipo di distrazione di massa sicuramente non aiuta a recuperare il senso che viviamo di una vita che abbiamo ricevuto. La grande intuizione iniziale, il punto di partenza, è che la vita è un dono che sta portando frutto, che sta crescendo, non ciò che noi semplicemente riusciamo a fare di questo stesso dono nelle difficoltà. Qui torniamo alla sfida indicata da San Paolo, che intuisce come, nella debolezza, si possa manifestare la potenza di Dio. È la grande sfida della fede che, di fronte alle prove, ci chiama a fidarci, non a misurare la realtà solo sulle nostre capacità.
Come si lega tutto questo a un altro punto molto significativo della Proposta, cioè quello del richiamo al sacramento della Riconciliazione vissuto come grazia, naturalmente, e non come volontarismo?
I due concetti sono collegati perché trovano la loro comune radice nel «basta» come dichiarazione di un desiderio di vita nuova, di una continua ripresa nel cammino dell’esistenza umana in cui sperimentiamo le nostre fragilità. Vivere il sacramento della Riconciliazione significa avere voglia di ricominciare, è voler tornare alla grazia del Battesimo che si deve rinnovare nella nostra libertà, anche nel peccato, nella forma del male radicale che, in qualche modo, è sempre guarita dalla grazia di Dio. La penitenza e la riconciliazione non sono legate a una sorta di moralismo, di vago risarcimento del male compiuto o di perfezionismo. Da questo punto di vista dobbiamo recuperare il sacramento della Riconciliazione come dimensione della guarigione sottolineata dagli antichi monaci. In ogni situazione di fragilità e di malattia Dio può guarire – ti vuole guarire – e la guarigione è proprio l’esperienza di un rinnovamento.
Dall’affidarsi alla grazia, quindi, nasce anche la fiducia nell’umanità, come scrive l’Arcivescovo nell’importante paragrafo in cui stila una sorta di decalogo dal titolo «Basta con la guerra»…
Certo, anzi direi che c’è una specie di ottimismo cristiano di fronte all’umano, che deriva proprio dal fatto che l’uomo, al vertice della creazione, rimane un capolavoro di Dio, una realtà nella quale il Signore ha messo cose belle. Cose che, anche se ferite, guastate da tante esperienze negative, mantengono la loro bellezza originaria proprio in virtù della relazione con Dio, del dono, come dicevamo, che ci precede. Da questo punto di vista, il cristianesimo è una forma di umanesimo, come l’Arcivescovo evidenzia. Un umanesimo nuovo che non si nasconde i problemi, che non chiude gli occhi perché c’è una speranza più grande, una fiducia più radicale, che è appunto la possibilità della rigenerazione.