«L’origine prima di questa Proposta è stata la domanda se esista un rimedio al declino della società europea che sembra orientata ad avere una scarsa propensione a vivere di speranza. Allora, mi sono chiesto se esista un’alternativa». È l’Arcivescovo stesso a spiegare i temi e il perché del suo scritto che guiderà la vita e le attività diocesane nel 2023-2024 (leggi qui). «Più che una proposta, un programma di lavoro», come sottolinea, rispondendo ai giornalisti, nella conferenza stampa che segue il Pontificale da lui presieduto in Duomo per l’inizio dell’Anno pastorale (leggi qui).
L’individualismo e lo scarso desiderio di futuro
D’altra parte sono chiarissimi i temi che gli stanno a cuore e che trovano posto in altrettanti capitoli della pubblicazione, emergendo a pieno anche nel dialogo con i media: «La fragilità della famiglia, il fatto che i rapporti familiari tra uomo e donna siano così difficili». E, poi, il lavoro con le complessità di un incontro tra domanda e offerta, ma soprattutto le emergenze educative e la condizione giovanile. «Mi chiedo – prosegue, infatti, monsignor Delpini -, se tutti questi problemi fanno venire voglia di fare famiglia, di essere padri e madri e, se questo desiderio è oscurato, se potranno nascere ancora bambini in Europa. Il calo demografico è il segno che la nostra civiltà non ha desiderio di futuro. Il ricorso diffuso all’interruzione della gravidanza esprime un atteggiamento di morte e la confusione nell’identità sessuale significa, forse, che il rapporto di reciprocità uomo donna sia considerato, oggi, come mortificazione del desiderio e non come il suo compimento. Questi sintomi dicono che la civiltà europea sta declinando?».
Da qui l’ipotesi dell’Arcivescovo «che lo scarso desiderio di futuro, di paternità e maternità, dipenda da una concentrazione spropositata sull’individuo», e la domanda che ne deriva. «In un contesto simile che proposta abbiamo come Chiesa? Come comunità cristiana, abbiamo qualcosa da dire? La mia persuasione è che noi cristiani possiamo proporre la vita come vocazione che è il contrario dell’individualismo».
Nessuno costruisce la società da solo
Il riferimento è alla frase che campeggia su una pubblicità ora diffusissima a Milano (“Siamo tutti unici”), «che può significare che ciascuno è solo, condannato all’isolamento, che non possiamo far parte di una comunità che crede a valori comuni, anche che, in realtà, questa espressione ha una radice cristiana. Tutti siamo unici perché chiamati per nome, tutti veniamo al mondo perché siamo chiamati alla vita da Dio e questo è il principio di unicità di ciascuno e di responsabilità di ognuno verso tutti nella costruzione, attraverso la propria dinamica relazionale, di una società in cui sia desiderabile abitare con responsabilità. Nessuno può costruire il mondo da solo e facendo riferimento solo a se stesso, ma solo in rapporto con gli altri, con Dio, con l’ambiente in cui viviamo. Questo è un principio promettente per vivere. Nelle scelte comunitarie e politiche, la vita come dono è un principio promettente perché l’Europa non sia condannata al triste declino di un mondo in cui la solitudine sia un valore inappellabile. Credo che i cristiani siano cittadini del mondo e, quindi, che come gli altri sono contagiati dall’ individualismo, ma occorre che ci rendiamo conto di questa tentazione, non immaginando un mondo a parte, ma trovando le risorse per farlo evolvere. Dobbiamo continuare il nostro cammino di conversione come discepoli di quel Signore che ha voluto convocare una comunità e non dei singoli».
Milano, città individualistica ma non egoista
Da alcune domande sulla situazione della città di Milano, nasce un’ulteriore riflessione_ «Milano è una realtà specifica, una città dove le scelte sono molto individualistiche, ma dove vi è un’intrinseca solidarietà, una propensione a prendersi a cuore gli uni degli altri, ad avere molta cura per gli anziani e i bimbi. La caratterizza un individualismo che non è un egoismo spietato, ma che va collocato, semmai, sul piano delle scelte personali. Ho concluso la Visita pastorale alla città vedendo tante parrocchie, realtà sanitarie, scuole, attraverso una panoramica capillare. Vorrei scrivere una lettera sulla Chiesa che è in Milano dicendo cosa ho visto di bello e di problematico», annuncia.
E se si parla di difficoltà, il pensiero non può che essere rivolto, in primis, al disagio giovanile.
Il disagio giovanile, la reticenza degli adulti e le politiche securitarie
«È responsabilità degli educatori avere qualcosa da dire sull’identità di genere fluida dei giovani, mentre pare che ci sia una reticenza anche da parte dei genitori. Non ho una proposta pedagogica, ma mi sembra che sia importante dissuadere dalla reticenza, perché c’è un messaggio che l’antropologia cristiana può offrire. Penso che essa parli di una convocazione a essere in relazione, come vocazione alla reciprocità. L’ossessione della sessualità finisce per dare un’enfasi a un aspetto certamente importante, ma che non è l’unico della relazione. Parlare di sessualità in termini generici fa torto alle relazioni umane. Non possiamo tacere, abbandonare le persone alle emozioni o alla pressione mediatica che sembra orientata a questa forma di fluidità dei rapporti. Penso che gli educatori, e i genitori in modo particolare, non devono ritrarsi dalla responsabilità. Talvolta si ha l’impressione che noi adulti siamo complessati perché non vediamo una predisposizione favorevole a essere ascoltati e questo riguarda anche i genitori: non siamo perfetti, non possediamo la verità in tasca, ma abbiamo la responsabilità della trasmissione di alcuni valori. Abbiamo qualcosa da dire, anche se il complesso di inferiorità della generazione adulta nei confronti dei giovani porta a una certa estraneità: il compito dei cristiani è abitare questo tempo».
Non manca, in un tale contesto, il richiamo alle politiche securitarie del Governo (leggi qui): «Credo che il Governo debba fare il suo mestiere, ma è la società che deve essere attrezzata per affrontare il disagio di gruppi di adolescenti e preadolescenti incontrollabili. Questo ci fa pensare molto, perché rivela l’incapacità del mondo adulto ad assumere le proprie responsabilità educative. Si tratta di creare alleanze che vadano oltre gli interventi di repressione. Perché non c’è soluzione che passi solo da una maggiore vigilanza». L’invito è a una mobilitazione sinergica «anche con le società sportive, gli oratori, le scuole che non possono andare ognuno per proprio conto» altrimenti si crea «un popolo smarrito di cani sciolti che finisce per mordere».