Sabato 9 giugno, alle 9, l’arcivescovo Mario Delpini ordinerà 23 nuovi preti con una solenne celebrazione eucaristica nel Duomo di Milano. Davanti a tutta la Chiesa ambrosiana i diaconi diranno il loro “sì” fiducioso al Signore al termine di un personale percorso di discernimento e di verifica vocazionale.
Ad accompagnare i futuri presbiteri (dalla sera di domenica 3 giugno in ritiro a Rho con padre Giulio Michelini, che ha predicato gli esercizi spirituali quaresimali alla Curia romana e a papa Francesco nel 2017) oltre ai familiari e agli amici, ci saranno gli educatori e il rettore del Seminario, monsignor Michele Di Tolve.
Cosa può dire di questa classe?
Sono uomini molto diversi per età, provenienza culturale, storia personale e studi pregressi. Durante gli anni di vita comune in Seminario le ricchezze e le prerogative di ciascuno sono diventate un dono reciproco, tanto da essersi arricchiti vicendevolmente. Sono convinto che hanno compreso che questo processo di fraternità, giunto a una tappa significativa della loro vita, continuerà all’interno dell’esperienza presbiterale.
L’anno scorso erano solo 9, quest’anno ne verranno ordinati 23. Come commenta questi dati?
Questa differenza spiega in maniera precisa che il cammino di discernimento è veramente personale. Al di là dell’appartenenza a una classe di scuola teologica, il servizio educativo che svolgiamo è attento al cammino di ogni seminarista. Nei 23 ordinandi di quest’anno sono inclusi seminaristi che provengono da un percorso personalizzato di tirocinio pastorale. Nel discernimento ci sono in gioco due libertà: la prima è quella del seminarista che sceglie di chiedere di essere ammesso all’ordinazione diaconale e presbiterale; la seconda libertà e responsabilità è quella degli educatori che, a fronte della loro domanda libera e responsabile, devono rispondere con altrettanta libertà e responsabilità. Bisogna infatti tenere conto del bene personale dei futuri preti e di quello della Chiesa.
Cosa dicono delle vocazioni e in particolare della scelta di seguire Gesù nel sacerdozio?
Ogni vocazione ci fa comprendere che il dono del Battesimo, il cammino di fede che nasce da quell’incontro con Cristo crocifisso e risorto, è qualcosa che riguarda tutti. Ogni vocazione ci fa comprendere che la vita cristiana in quanto tale è risposta a una chiamata. Non esiste davanti a Dio una massa di persone confusa e informe, ma esiste ogni persona. In particolare la vocazione al ministero ordinato ci racconta che il Signore continua a chiamare uomini che si mettano al suo servizio, per esprimere qui e ora l’amore di Gesù buon pastore; la vocazione al ministero ordinato racconta che Gesù continua a chiamare uomini di fede che abbiano come unica preoccupazione la cura della fede e della vita dei figli di Dio; la vocazione al ministero ordinato racconta che Gesù vuole avere bisogno di uomini che, attraverso l’annuncio della parola, la celebrazione dei sacramenti, la dedizione pastorale, lo rendano presente oggi quale unico e necessario salvatore per la nostra vita.
Le piace il motto che hanno scelto («E cominciarono a far festa»)?
Questa frase è contenuta nel Vangelo di Luca, al capitolo 15, nel racconto della parabola del padre misericordioso. Il motto, quindi, va inserito all’interno di quell’esplosione di gioia che il padre misericordioso chiede di vivere, dopo tutta l’angoscia per un figlio che era perduto. Vuole rendere presente oggi la stessa gioia del padre per il figlio che torna a casa. I candidati, nel loro cammino di conversione e di crescita cristiana, hanno sperimentato personalmente la misericordia del padre. Ognuno di loro ne è rimasto così affascinato che pian piano ha cercato di capire in che modo potesse rendere grazie a Dio per il dono ricevuto.
Il motto è piaciuto anche a papa Francesco?
Certamente. Quando ha incontrato i candidati in pellegrinaggio a Roma ha ribadito come sia necessario oggi essere ministri, cioè servi, del Signore perché ogni persona possa gustare la gioia e la festa che il Padre vive quando qualcuno dei suoi figli dispersi ritrova la casa.
Giuseppe Pellegrino viene ordinato a 46 anni, Alberto Ravagnani e Giovanni Boellis non ne avranno ancora 25. Cosa aggiunge al ministero una vocazione in età adulta?
Ogni età ha una grazia particolare, nella Sacra Scrittura ci sono tantissime storie di vocazioni: alcuni sono chiamati da ragazzi, altri da giovani, altri da adulti, altri ancora da anziani. E in ogni momento il Signore rivolge la sua chiamata come desidera, quando vuole. In ogni chiamata sicuramente gioca un ruolo importante la propria biografia. Certamente è più probabile che un giovane adulto sia più consapevole, ma potrebbe essere anche più timoroso. È probabile che un giovane abbia una capacità di slancio e di affidamento molto più coraggioso e creativo, ma contemporaneamente deve imparare a fare i conti con la realtà. In ogni età, in ogni condizione c’è una grazia particolare e una responsabilità personale.
Con quali sentimenti, pensieri e magari anche preoccupazioni accompagnerà i “suoi” ragazzi il giorno dell’ordinazione?
Innanzitutto provo nel mio cuore una gioia grande per aver accompagnato questi giovani, un grande stupore e un grande senso di gratitudine verso Dio, le loro famiglie, la comunità cristiana che li ha generati alla fede e che li ha educati. È meraviglioso poter vedere come lo spirito di Gesù risorto ha riempito la loro vita e ha ispirato le loro scelte. Mi sento un privilegiato per essere stato testimone del cammino di sequela che hanno vissuto, affidandosi alla comunità del Seminario e alla Chiesa ambrosiana. Contemporaneamente provo nel mio cuore tanta trepidazione perché devono imparare a non perdere quella carica e quello slancio coraggioso che deve fare i conti con la libertà delle persone. Non basta che loro siano entusiasti, ben preparati, ben motivati, ben fondati, perché la gente creda e decida di vivere una vita cristiana più autentica. È necessario avere tanta pazienza e camminare con le persone a cui vengono affidati, avendo gli occhi fissi sulla meta che è Gesù Cristo, tenendo conto del passo concreto che oggi quelle persone in particolare possono fare.
In una società come la nostra, crede che il prete possa ancora essere un punto di riferimento?
L’esperienza, ogni giorno, mi dice che in generale c’è una grande fame e una grande sete di preti autentici, appassionati, capaci di relazioni gratuite. La gente cerca pastori secondo il cuore di Gesù. Anche chi non è consapevole esprime questo desiderio di poter fare una vera esperienza di incontro con il Signore. È vero però che mi è capitato di riflettere su alcune situazioni pastorali e ho ricavato che a volte i fedeli di una parrocchia o di una Comunità pastorale si aspettano dal prete che faccia tante cose, ma così si rischia di perdere ciò che veramente è essenziale che un prete debba fare: l’uomo di Dio. È come se la comunità cristiana a volte chiedesse al prete attività e servizi che in realtà dovrebbe svolgere ogni battezzato, mentre il prete deve servire la comunità nell’annuncio della Parola, nell’accompagnamento delle persone nel cammino di fede, nell’esperienza della riconciliazione, nell’esperienza del consiglio e dell’accompagnamento spirituale. A volte la comunità cristiana rischia di chiedere al prete di fare il gestore. Mi è però anche capitato di ascoltare preti profondamente stupiti e meravigliati che da parte di chi non crede, non pratica, o si dichiara indifferente riguardo alla questione religiosa, venga il desiderio profondo di dialogare sul mistero della vita, su Dio, sulla Parola, sulle grandi questioni esistenziali. Ecco questo mi sembra qualcosa che debba farci riflettere profondamente.