«La Rivista del Clero, espressione da 100 anni dell’Università Cattolica, ci dice che la cultura e l’accademia sentono il desiderio e la responsabilità di dialogare con ilcClero italiano, anche se oggi, naturalmente, la rivista ha assunto un respiro più ampio». Si apre così, con le parole dell’Arcivescovo, l’intensa giornata di formazione e aggiornamento che, presso l’Aula Bontadini dell’ateneo, ha riunito relatori di grande rilievo. Tutti impegnati a riflettere – di fronte a un folto uditorio formato da sacerdoti e diaconi permanenti – su «Riprendere spirito. Confidenza della preghiera, slancio del ministero». Evento promosso dall’équipe della Formazione permanente della Diocesi, insieme ad altre diocesi del Nord Italia e alla Rivista del Clero edita da “Vita e Pensiero” – presenti il vicario episcopale per la Formazione, monsignor Ivano Valagussa, il direttore dell’editrice Aurelio Mottola e il direttore della rivista don Giuliano Zanchi -. che ha visto, tra gli altri, le comunicazioni del vicepresidente della Cei Erio Castellucci e dell’arcivescovo di Torino Roberto Repole.
Rinsaldare il rapporto tra Università e clero
«L’Università Cattolica esprime attenzione per il nostro clero che è generoso e inquieto, essenziale e, qualche vota, ingombrante per la Chiesa; un clero che cerca visioni, che domanda risposte e che esita a entusiasmarsi per quelle indicazioni che vengono dalle proposte riorganizzative. È un clero che vive una particolare forma di transizione e recepisce tutta la inquietudine di questi passaggi e su questo l’accademia rappresentata dall’Università è sollecita – ha osservato ancora l’Arcivescovo-. Forse questa attenzione dice anche una sorta di nostalgia e di rammarico, per un rapporto tra il clero e l’Ateneo che si è fatto sempre più parallelo e quasi di estraneità l’uno all’altro. Come presidente dell’Istituto “Giuseppe Toniolo”, mi sta cuore dire che il tema del rapporto tra la Cattolica e la Chiesa deve essere approfondito da entrambe le part,i perché l’Università viva questo senso di appartenenza alla Chiesa italiana e questa ultima si senta arricchita dalla presenza e dalla ricerca dell’Ateneo. Il titolo scelto, della preghiera e del riprendere Spirito, ci introduce in una dimensione irrinunciabile. Al tema della preghiera e della liturgia come luogo della comunione attribuisco un ruolo determinante per lo stare bene del clero nella configurazione a Cristo».
Lo spaesamento del clero
Insomma, un momento di approfondimento intenso che «speriamo di replicare ogni anno», come ha detto don Zanchi. «Essere preti è diventato difficile. In questa fatica, il desiderio di sentire la Chiesa come qualcosa di vicino, come una casa e non una caserma, è forte. Una casa dove la nostra umanità sia incoraggiata e l’autorità sappia trovare criteri di orientamento», ha aggiunto, illustrando le ragioni del convegno.
«Il titolo coglie sicuramente le istanze del nostro tempo, complesse per tutti e, in specifico, per i sacerdoti, a causa di una vita sociale diventata sempre più vorticosa, dei nuovi strumenti della comunicazione, del mutamento degli stili di vita che, specie dopo il Covid, sono enormi e nei quali si fa fatica a trovare un equilibrio. È sempre più necessario un rapporto tra l’Ateneo e il territorio, considerando anche il Cammino sinodale che stiamo vivendo», ha detto da parte sua l’assistente ecclesiastico generale della Cattolica monsignor Claudio Giuliodori, collegato da remoto.
A monsignor Repole il compito di riflettere sul tema «dell’orientarsi nello spaesamento di oggi»: «Dare un nome a questo spaesamento è già concorrere a rintracciare una bussola per orientarsi. Occorre guardare il cambiamento socioculturale a cui la Chiesa non può essere estranea. Il prete stesso non esiste in vitro. Le stanchezze che molti preti avvertono sono da leggersi come fenomeni della discrasia tra il modello di società cristiana e la società di oggi. Il prete si prendeva cura di comunità poco complesse e naturalmente cristiane, ma oggi si mantiene lo stesso schema in un contesto dove si è interrotta la trasmissione della fede».
Altra causa, per Repole, dello spaesamento è «la perdita di considerazione sociale a cui vanno incontro molti presbiteri per la secolarizzazione. Mentre un tempo vi era un riconoscimento immediato del prete e della sua missione, oggi questo è sempre minore e circoscritto in una sorta di irrilevanza pubblica della Chiesa. Può capitare sempre più spesso che i preti soccombano sospesi tra l’annuncio della Parola, la guida della comunità, la cura della liturgia. A dispetto di una visione sacerdotale del ministero del prete, che diventava a volte sacrale, la visione del Vaticano II ha proposto qualcosa di più ampi, puntando molto sul presbiterio. L’identità di un prete non solo “uomo dell’eucaristia” che si sposava bene con una visione individualistica».
Altra questione, la carenza di riflessione teologica: «La responsabilità e il potere del prete non sono ad omnia, ma ci deve essere un prendersi cura della comunità insieme ad altri ministeri, come quello diaconale. Sentire i diaconi permanenti per lo più come sottoposti, è il frutto di una carenza teologica. Si è riflettuto tropo poco sul ministero diaconale e sulla sua reciprocità con quello presbiterale». Da qui la conclusione: «Tutto questo implica un ripensamento del percorso formativo, con il fatto che il modello di comunità, dove tutti erano normalmente cristiani, non esiste più e non è riproducibile. Occorre un potenziamento autentico del presbiterio presieduto dal vescovo, per orientarsi a esercitare la corresponsabilità nelle scelte di fondo su decisioni complesse».