«Lo sconcerto che proviamo per tanta violenza richiede una riflessione approfondita. Sembra così frequente oggi la morte violenta che quasi non si riflette più sulla morte naturale. Perché tanta violenza, tante guerre, tanta violenza domestica, tanti orrori che non si possono comprendere? Io sento molto la responsabilità che le persone sapienti, sagge, le persone di fede diano una parola amica che incoraggia a custodire l’anima, la memoria buona, a essere responsabili di costruire un mondo più sereno. Piuttosto che lo sconcerto per quello che succede, noi siamo quelli chiamati alla responsabilità di costruire il futuro».
Un popolo che prega per i morti e costruisce il futuro
È questo che l’Arcivescovo dice, durante la sua sosta al Famedio del Cimitero Monumentale di Milano, dopo aver presieduto la Messa nella data tradizionale del pomeriggio dell’1 novembre, vigilia della ricorrenza dei defunti, «avendo per tetto il cielo in un luogo caro ai milanesi come è lo storico cimitero di Milano». Accanto ai lui concelebrano alcuni frati Francescani Minori del vicino convento di Sant’Antonio, cappellani e affidatari del cimitero. Tanti i fedeli riuniti, all’aperto, nell’ampio spiazzo all’ingresso, tra cui, in prima fila, Gaia Romani, assessora del Comune di Milano ai Servizi Civici e Generali, con competenza per i Servizi Funebri e Cimiteriali, con la fascia tricolore in rappresentanza del Sindaco, e la direttrice del Monumentale Giovanna Colace.
Un rito di popolo che accomuna tutti, secondo quanto suggerisce, in apertura, l’Arcivescovo. «Sentiamo la responsabilità – osserva, infatti – di costruire un’appartenenza alla città, di sentire che i nostri morti sono i morti della città, che non c’è soltanto una esperienza personale, privata, familiare, ma c’è un popolo che ha bisogno di pregare per i propri morti per sperare nel proprio futuro».
Un monito che torna anche a fine della celebrazione nelle parole pronunciate a margine, come un filo rosso che percorre e unifica i diversi momenti vissuti al Monumentale. «Il cimitero è il luogo della comunità che custodisce le sue memorie. A differenza di altri Paesi noi non abbiamo cimiteri selettivi solo per cristiani, per cui questa generazione e le generazioni a venire possono sempre riscoprire qui un luogo in cui sentirsi appartenenti a una comunità: la comunità che è stata costruita dalla gente che qui è sepolta e che noi abbiamo la responsabilità di custodire per il futuro».
La perdita della memoria
Di due malattie piuttosto diffuse, due tentazioni gravi, parla l’Arcivescovo nell’omelia.
La prima è perdere la memoria, circondati come siamo da smartphone che sostituiscono la raccolta dei ricordi e la necessità di custodirli. «La memoria di un uomo e di una donna non è soltanto registrare dei dati, ma ricordare – come dice la parola -, ha a che fare con il cuore, non vuole dire solo registrare un nome, una data, una storia, ma parteciparvi, sentire ancora la commozione di quel momento, la gratitudine di quel dono, sentire ancora come è stato doloroso accompagnare una persona cara verso la fine della sua vita».
Una perdita della memoria – questa – che è ancora più grave a livello sociale e collettivo, perché «fa sì che si possano ripetere gli errori del passato. Perché si fa la guerra? Perché ancora nel nostro tempo ci sono dei Paesi che si organizzano per uccidere i Paesi vicini, perché? Forse hanno dimenticato quanto è disastrosa la guerra e pensano ancora che possa risolvere le cose».
La memoria malata
E, poi, la seconda malattia: «Quella di custodire una memoria malata che, ricordando il passato, coltiva il risentimento e il desiderio di vendetta». Come le persone che «non si parlano più», proprio perché «continuano a ricordarsi di quel litigio, di quella offesa, di quel dibattito che li ha contrapposti». Al contrario, sottolinea l’Arcivescovo, «il mistero che stiamo celebrando ci dice come sia la memoria buona: quella che fa diventare migliori». Il riferimento è alla Lettera paolina ai Romani capitolo 8, proclamata nella Messa, in cui si dice che tutto concorre al bene di quelli che amano Dio.
«Questa non è una bella frase per consolarci, ma è la verità che celebriamo perché Gesù è risorto: con lui risorgiamo anche noi e sono vivi i nostri morti. Gesù è vivo, è qui, è capace di consolare le lacrime, di dare forza a chi è nella prova, serenità a chi è assetato di giustizia».
Il pensiero torna al cimitero, un luogo «fatto per custodire la memoria di coloro che ci hanno preceduto».
Intercedere per tutti
«Per questo siamo qui a pregare, perché noi, ricordando i nostri morti, impariamo anche a perdonare, a intercedere per tutti, anche per gli sconosciuti e per coloro che magari, hanno commesso del male. La memoria buona è quella che custodendo tutto quello che riesce a ricordare ne trae sempre motivi per diventare più buoni».
Infine, al termine della celebrazione, la breve sosta dell’Arcivescovo accompagnato dall’assessora Romani, al Famedio, davanti alla lapide con i nomi degli ultimi milanesi illustri iscritti nel Pantheon della città, tra cui don Luigi Melesi, storico e indimenticato cappellano di San Vittore.