È immensa la tavola di Natale imbandita dalla Comunità di Sant’Egidio. Lo scorso anno sono stati quasi 200 mila i poveri accolti il giorno di Natale in oltre 60 Paesi del mondo, 40 mila in Italia, in 80 città: Milano, Roma, Napoli, Padova, Firenze, Bari, Catania, per citarne solo alcune. Diversi sono i luoghi dove si apparecchia per il pranzo natalizio: chiese, case, scuole, ma anche istituti per anziani, carceri e ospedali. Il pranzo di Natale con i poveri è una tradizione della Comunità di Sant’Egidio da quando, nel 1982, alcuni di loro, in gran parte anziani soli, furono accolti attorno alla tavola imbandita nella basilica di Santa Maria in Trastevere, come segno di una Chiesa che ha nel cuore gli ultimi. Da allora questo banchetto si è allargato di anno in anno, raggiungendo tanti paesi nel Nord e nel Sud del mondo. «Quando a tavola si siede un povero – dice Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio – è il vero Natale e lo è per due motivi. Primo perché è il Natale in cui accogliendo il povero, si accoglie Gesù. E in secondo luogo è il Natale della famiglia, non solo della mia, della tua, ma della famiglia allargata. Il mondo è una fraternità universale e in questa fraternità noi riconosciamo tutti, anche chi è emarginato e lontano, come nostri fratelli e sorelle e quindi è giusto che a Natale siamo tutti insieme seduti a tavola come una vera famiglia».
Chi sono i poveri oggi?
«I poveri oggi sono di tanti tipi e vengono da tante storie diverse. Restano poveri, molto poveri, i rom perché l’Italia è uno dei pochi Paesi europei in cui esistono ancora i campi rom e non c’è stato il superamento di questa logica di emarginazione. Sono diventate povere molte persone che vengono da difficoltà o rotture familiari: soprattutto gli uomini finiscono in condizioni di povertà, addirittura per strada. Ci sono poveri che lo sono diventati perché hanno perso il lavoro. Tanti poveri sono anziani: persone sole, abbandonate, soprattutto quelli che vivono in istituti. La grande povertà per loro è la solitudine. Sono persone con volti e storie diverse ma tutti con il desiderio di incontrare qualcuno, di incontrare una risposta».
Perché voi di Sant’Egidio avete fatto la scelta del povero?
«Per un motivo molto semplice, perché noi abbiamo cominciato la nostra strada leggendo il Vangelo e nel Vangelo Gesù ci ha sempre interrogato sul povero a partire dal capitolo 25 di Matteo, in cui Gesù si identifica in alcune figure di persone povere: lo straniero, il rifugiato, colui che ha fame, ha sete, colui che non ha nulla con cui vestirsi. Nasce quindi dall’aver scoperto nella nostra storia che ogni volta che abbiamo incontrato un povero, abbiamo incontrato Gesù, e questo incontro ha fatto sì che in tante persone ci sia stata una trasformazione di vita. Sono i poveri che hanno evangelizzato la Comunità».
È vero poi che l’ingiustizia è madre di tutte le guerre?
«Diciamo che la guerra è la madre di tutte le povertà. E noi avendo conosciuto tante situazioni di guerra nel mondo, abbiamo incontrato tante povertà. Ecco perché diciamo che dalla guerra non nasce niente».
Questa scelta preferenziale per il povero ha sempre caratterizzato la storia della Chiesa. Cosa cambia con il pontificato di papa Francesco?
«Arcivescovo di una grande città del Sud del mondo, il Papa ci ha parlato delle periferie. Forse per la prima volta con lui abbiamo sentito in maniera chiara che solo nelle periferie si capisce la verità del mondo. Perché i poveri, gli ultimi, ci chiariscono come va il mondo al di là di tante logiche, di tante voci e immagini false. In secondo luogo cambia il fatto che a partire dall’Anno Santo della Misericordia, c’è stata una concentrazione dei cattolici su questo tema della Misericordia, e andando incontro alle persone che si trovano in bisogno, si sono cercate e create nuove risposte, mettendo anche in discussione tanti modi di vivere e di essere delle nostre parrocchie, comunità, associazioni e semplici fedeli. Quella sul povero, è tornata adesso una domanda personale. Non più una domanda istituzionale, “cosa può fare la Chiesa per i poveri”, ma una domanda personale: “Cosa posso fare io?”».