Il mondo malato e il dovere di guarirlo tutti insieme; il futuro, la speranza, l’infinito e quel senso del limite umano diventato, nei giorni più tremendi della pandemia, una consapevolezza dolorosissima da accettare, ma nuova e, forse per questo, promettente per il futuro. E, poi, lo studio, i giovani, l’Università al cuore di una Milano che ha saputo far funzionare le cose.
L’Aula Magna dell’Università degli Studi finalmente accoglie il dialogo tra l’Arcivescovo e gli studenti dell’Ateneo, «un incontro troppo lungo rimandato», come dice il magnifico rettore, Elio Franzini che sottolinea: «Questa aula ha visto parlare molti Arcivescovi, sempre ascoltati. La domanda è, per usare il titolo della Biennale di Architettura di Venezia, “Come vivremo insieme?”. È difficile dare una risposta perché la pandemia ha cambiato il nostro modo di essere al mondo e forse anche l’Occidente, che si è sempre ritenuto la perla dell’umanità, ha scoperto la propria debolezza. Speriamo che questa tragedia sia anche un modo per andare oltre, recuperando il senso delle nostre vite», conclude il Rettore cui è accanto, oltre il vescovo Mario, il cappellano della “Statale”, don Marco Cianci che introduce la serata. «Il Covid lascia dietro di sé una scia di morti, di feriti nel corpo, nella mente, nell’anima, danni materiali e sociali che ancora non sappiamo quantificare. Ma, come ogni conflitto, lascia anche semi di rinascita che sta a noi raccogliere e far fruttificare o lasciare a inaridirsi sul terreno». Il riferimento è al “Discorso alla Città” 2020 dell’Arcivescovo, “Tocca a noi tutti insieme” scelto dagli universitari come testo base dell’incontro.
La riflessione del vescovo Mario
Da una premessa articolata e definita «fondamentale», si avvia la riflessione del Vescovo. «Una constatazione, su cui è facile convenire, è che il mondo sia malato, sbagliato, che si sia frantumato, ma noi non siamo qui per fare diagnosi, ma per domandarci chi lo guarisca. Oggi, serpeggia l’atteggiamento di chi pensa che non tocchi a lui. Eppure, l’esperienza del Covid ha dimostrato che rivendicare la logica dell’individualismo è un’illusione».
Il pensiero va a un modo cristiano di interpretare la storia. «Mi faccio voce del cristianesimo lombardo che è sempre stato a proprio agio nella storia, interpretando la situazione come occasione, non come fatalità, perché ritiene che in qualunque situazione sia possibile scegliere ed esercitare la libertà. Questo fa dei cristiani dei seminatori di speranza».
Se questo è il primo «atteggiamento» da coltivare, il secondo e il terzo sono altrettanto chiari nelle parole dell’Arcivescovo. «Il cristiano, di fronte all’umanità che geme, si sente chiamato e interpellato; vive la sfida come una provocazione per mettere a frutto i propri talenti e risorse».
«Ho iniziato il “Discorso alla Città” con una citazione del profeta Geremia che, in una Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, decide di comprare un campo, indicando che ci sono buone ragioni per sperare. La speranza cristiana non è l’aspettativa o la previsione, è la risposta a una promessa che viene da Dio. Questo è l’antidoto più convincente contro due grandi insidie. Anzitutto, l’individualismo che vede il singolo come criterio del giudizio, di un bene e male che hanno riferimento solo al desiderio personale, per cui la società non ha più figli e desideri. Un individualismo che orienta la civiltà occidentale al suicidio. Inoltre, vi è la nostalgia di un passato in cui è preferibile tornare schiavi perché avventurarsi verso la terra promessa e il deserto è troppo pericoloso», per usare l’immagine biblica.
Al contrario, scandisce monsignor Delpini rivolgendosi direttamente ai giovani, «io voglio esortarvi a essere gente che investe sul futuro, non perché ha fatto previsioni che ne avrà un vantaggio, ma perché crede a una promessa affidabile e a una responsabilità. Tocca a noi tutti insieme aggiustare il mondo».
Poi, l’affondo sulla città e la terra ambrosiana a cui il “Discorso” è tradizionalmente indirizzato. «Milano dice appunto tutto ciò, pur rivendicando la sua radice laica, ma costatando che la gente che abita questa terra converge sull’idea che tocca a noi. La mia lettura di Milano è che ha funzionato».
E questo con alcuni punti fermi: «una visione condivisa della società e del futuro, costruita su un’adesione spontanea a valori che si riconoscono irrinunciabili come la modestia che ci consente di conservare la giusta misura di quello che possiamo fare senza sentirci colpevoli della nostra imperfezione perché, come ha insegnato la pandemia, un tale atteggiamento non trasforma il fallimento in annientamento».
Visione – questa – che ha anche dei precisi contenuti. «La famiglia perché, se la famiglia è malata, lo è anche la società. Nonostante molte ideologie sentano il tema-famiglia con una sorta di allergia, proprio questa tragedia ha dimostrato come la famiglia sia il luogo dove guarire tanti mali. Tocca a noi tutti insieme promuoverla e proteggerla. Un secondo valore è contrastare la globalizzazione del mercato, dove l’umanità stessa è destinata a diventare merce da vendere e comprare, con una visione che spinga a vedere nella differenza una ricchezza. L’umanità è chiamata a diventare una fraternità».
Infine, «la fiducia in se stessi che motiva la speranza e spinge a dire tocca a noi tutti insieme, perché possiamo farlo».
Le domande
Sul senso del limite e la speranza nel domani si incentrano gli interrogativi posti dai giovani. Il primo studente domanda: «Come, nella consapevolezza del limite e dell’audacia della ricerca, possiamo preservare la soglia dell’incomprensibile e del mistero?».
Immediata la risposta. «Questa domanda coglie un punto fondamentale, ossia se siamo nati per vivere o per morire. Radicalmente si tratta di una scelta: c’è una speranza o non c’è? Credo che non vi sia altra risposta che trovare una promessa affidabile cioè che la morte è stata vinta. La ricerca, che va sempre oltre, può essere composta con il limite se sappiamo che questo stesso limite va considerato come una chiamata all’infinito. Non si tratta di andare sempre avanti con i tempi della vita, ma di confrontarsi con il compimento, l’infinito, la gloria di Dio».
Sullo studio l’Arcivescovo osserva: «La verità è un poliedro e non vi è disciplina che non sia allusione al bene, al bello, all’uno. Bisogna studiare, predisporsi a una professione dignitosa, ma quello che ci salva è che ogni nozione – anche la più arida o il particolare più incomprensibile – offre un scintilla e introduce alla visione del vero. Dovete studiare con la fiducia di una rinascita, come quando si getta un seme. Vi auguro di vedere presto il frutto di questo seme e di cantare e danzare, come dice la Bibbia».
Anche perché, prosegue il vescovo Mario quasi guardando nel profondo a uno a uno i ragazzi, «voi siete nelle condizioni di essere protagonisti, perché potete intraprendere un cammino, non con l’atteggiamento di un cliente che pretende perché paga, ma con il desiderio di raggiungere una meta tutti insieme, anche se costa fatica, mettendo a frutto i talenti, la vocazione da realizzare, la fraternità che riconosciamo. L’atteggiamento dei giovani di oggi è più saggio che nel passato. Quando io frequentavo l’Università, vi era una presunzione di cambiare il mondo che, qualche volta, ha provocato disastri. Voi potete percorrere percorsi inediti perché la modestia non è la rassegnazione al limite, ma il realismo che viene dalla conoscenza di sé e dal mettersi alla prova nella storia. Siete donne, uomini e non solo studenti e, quindi, non potete chiudervi davanti alle diverse dimensioni della vita. È questo che inserisce anche lo studio in una visione globale dell’esistenza in cui dovete immergervi. Studiare deve essere un modo per crescere».