L’inquietudine che «bussa alle porte della paura e ai palazzi del potere». L’inquietudine che porta a chiedersi chi sono gli altri e se riescono a vivere, tra turni di lavoro che allontanano dalla vita familiare, case dai prezzi proibitivi, «un sistema di vita che pretende il proprio benessere a spese delle risorse altrui». Insomma, l’inquietudine positiva che non lascia tranquilla la coscienza. Ma come leggere «l’elogio dell’inquietudine» che apre il Discorso alla Città 2022? «Il riferimento dell’Arcivescovo è perfetto e molto acuto dal punto di vista antropologico», spiega Silvano Petrosino, filosofo notissimo, docente di Antropologia filosofica e Filosofia della Comunicazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Perché definisce perfetto tale elogio?
Partiamo da questa osservazione quotidiana. Se c’è un segno della vita, questo è l’appetito, a tutti i livelli. Eppure, a mio avviso, il sintomo reale dell’essere uomo, dell’esistere, è esattamente l’inquietudine che indica un «al di là» rispetto alla pura soddisfazione e al godimento immediato. La nostra società ha dato risposta a molti appetiti umani: ha soddisfatto il problema della fame – almeno in alcune parti del mondo -, ha dato una certa sicurezza di vita e via dicendo. Ma questa soddisfazione non è all’altezza dell’inquietudine. Quindi, parlarne come fa monsignor Delpini, mi sembra particolarmente interessante come spunto per riflettere e avviare una discussione a vari livelli.
Cosa significa che la soddisfazione offertaci dalla società non riesce a rispondere all’inquietudine profonda dell’umano?
Il linguaggio e il sapere comune ragionano sempre in termini di soddisfazione diretta e superficiale del bisogno. Trovo questo altamente sorprendente. Per esempio tutti noi riflettiamo su alcuni comportamenti altrui facendo riferimento a un meccanismo immediato di causa-effetto relativamente a un interesse economico o politico. Così si cerca di spiegare tutto, ma in realtà c’è l’inspiegabile, che ritengo sia ciò a cui allude l’Arcivescovo.
L’inquietudine, quindi, nasce anche dalla sensazione di una mancanza, di un qualcosa su cui continuare a interrogarsi soprattutto come cristiani?
Il problema è, ancora una volta, che nel linguaggio comune noi confondiamo la mancanza con l’assenza. L’assenza indica un vuoto che può essere colmato: per usare ancora la metafora dell’appetito, ho fame e mangio, colmando momentaneamente il vuoto allo stomaco. La mancanza, invece, è l’indice di un «non so» che non può essere colmato. È chiaro che l’uomo ha tentato di dare un senso a questo non sapere e gli ha dato un nome per eccellenza: Dio. Il problema è che si rischia, in questo modo, di interpretare Dio come una cosa, vale a dire come colui che colma un vuoto. Io, invece, oso dire che Dio non mette fine, per così dire, al desiderio, ma è colui che lo accresce. Questo per me è fondamentale. Qui e ora viviamo l’inquietudine come il segno di un «di meno», mentre in realtà è un «di più»: è come l’attesa dell’amato. Forse l’unica autentica definizione di Dio è quella offerta da Michel de Certeau: «Dio, tu mi manchi».
È la stessa inquietudine dell’attesa dell’amato del Cantico dei Cantici che allarga il nostro sguardo? Infatti l’Arcivescovo dice: «L’inquietudine suggerisce disponibilità al confronto e considerazione ampia delle situazioni»…
Certamente. Però bisogna insistere che questo allargamento dell’orizzonte, capace di non rendere invisibili gli altri, specie coloro che non hanno voce, si realizza solo se si coglie l’«al di là» che supera il godimento e la soddisfazione. Per esempio, chiediamoci se il rapporto con un figlio, con il padre o la madre, l’amato o l’amata, si possa leggere solo in termini di ricerca della soddisfazione. Evidentemente no e così dovrebbe essere anche in una società in grado di andare oltre la banalizzazione sulla quale si incentra, oggi, anche tutto l’infinito lessico organizzato intorno ai termini del piacere e della soddisfazione. Lessico, però, che si rivela inadeguato a descrivere la complessità delle situazioni. Per questo penso che l’Arcivescovo, nelle pagine del Discorso, parli di lungimiranza in una realtà odierna dove invece, come scrive, «sembra produttivo e popolare essere sbrigativi e presuntuosi».