Il «paziente zero» nel Perù è stato registrato il 6 marzo scorso, il lockdown è iniziato ufficialmente dieci giorni dopo, la prima morte è avvenuta il 19, quando i casi superavano già il centinaio. Il cammino è stato lungo, e ancora non è terminato. A inizio ottobre abbiamo superato gli 800 mila casi, con 32 mila morti, anche se per ogni decesso per Covid-19 probabilmente ci sono altri due casi sospetti attribuibili al virus, come ha affermato a giugno un epidemiologo del Ministero della Salute peruviano.
I posti di terapia intensiva, tra ospedali pubblici e privati, all’inizio della pandemia non superavano i 700 letti in tutto il Perù, con oltre 30 milioni di abitanti; dopo 7 mesi il governo è riuscito ad arrivare a 1700: si può quindi capire come il coronavirus abbia fatto collassare il sistema sanitario del Paese, già problematico per la sanità pubblica precaria e di bassissima qualità e quella privata riservata a pochi e molto costosa.
Per quanto riguarda i tamponi, il governo si è subito attivato: il presidente Vizcarra proclamando lo stato di emergenza ha dichiarato di aver comprato 1,1 milioni di tamponi, di cui 800 mila test rapidi che hanno fatto sì che i numeri ufficiali non fossero mai certi. Un esempio è la nostra regione Ucayali, dove si trova Pucallpa, la città dove operiamo noi 5 fidei donum di Milano. Per mesi durante il lockdown le cifre di infettati sono rimaste invariate per mancanza di trasparenza nei test. Siamo già arrivati a 15.600 casi con 314 morti accertati. Vale però la stessa considerazione fatta circa i casi effettivi del Perù.
Il lockdown in Amazzonia
All’inizio la pandemia qui sembrava molto lontana, a causa delle notizie che giungevano dalla Cina e dall’Europa, noi italiani eravamo quasi compatiti; i parrocchiani ci chiamavano per farci sentire la loro vicinanza. La chiusura totale di tutte le attività e i primi casi di infezione a Pucallpa hanno dato inizio alla pandemia anche qui, in questo margine della foresta amazzonica, ma il lockdown sembrava temporaneo e rispettato: polizia per le strade, negozi e attività chiuse, pochissimi motocar in giro.
Lo stato di emergenza però ha messo in ginocchio da subito l’assistenza sanitaria: in tutta la città (circa 600 mila abitanti) i posti letto in terapia intensiva disponibili erano non più di una decina, tra l’altro già occupati, perché il Covid-19 qui è arrivato quando c’erano già un’infinità di casi di dengue (la febbre gialla, ndr) che solo lo scorso anno ha fatto più di 2 mila morti.
Inoltre, come in tutti i Paesi del Sud del mondo, l’emergenza sanitaria è accompagnata sempre da quella sociale: qui restare a casa significa anche fare i conti con la povertà, la maggior parte della popolazione vive in «case» di legno e lamiera di 4×4 metri, dove famiglie di 7/8 persone sopportano i 30 gradi di giorno e di notte, con il sole che batte sulle lamiere. Senza poi considerare le situazioni di violenza diffusa, dove zii, nonni, padrastri abusano sistematicamente figlie e nipoti. Infine, la situazione economica, con la lotta quotidiana per cercare di racimolare ogni giorno i pochi soles per sfamare tutta la famiglia.
Il virus ha cominciato a diffondersi, non solo in città, ma anche nei villaggi lungo il fiume e la carretera (strada che da Lima giunge fino a Pucallpa) fino alla selva, dove le persone sembravano essere state risparmiate, anche per l’isolamento obbligatorio imposto dalle autorità. Man mano venivano colpiti dal virus anche i più fragili gruppi indigeni Shipibo ancora presenti nella selva.
La «batosta» è arrivata quando a metà maggio è uscita la notizia che anche il sindaco di Masisea, uno dei villaggi più antichi lungo il fiume Ucayali, è morto di Covid-19 per mancanza di bombole di ossigeno. La mancanza di ossigeno negli ospedali e in tutta la città, insieme alla penuria, al rincaro dei prezzi dei medicinali e all’incertezza dei tamponi e dei test rapidi hanno portato alla diffusione del virus, insieme alla superstizione e alla incoscienza.
Il gruppo indigeno Shipibo, presente nel nostro vicariato di Pucallpa, ha affrontato il virus grazie al senso di comunità e alle conoscenze ancestrali della sua cultura. Alcuni ambienti di una parrocchia della città sono stati messi a disposizione della comunità Shipibo per allestire un centro sanitario alternativo agli ospedali, dove i malati sono curati prevalentemente con la medicina tradizionale. Il centro «Matico» (che prende il nome da una pianta medicinale utilizzata nella lotta alla malattia) funziona ancora oggi e riceve tanti malati ai quali vengono somministrati decotti e infusi di piante per alleviare i sintomi del Covid-19.
La Chiesa e la pandemia
E la Chiesa cosa ha fatto? E ora cosa sta facendo? Tanto. C’è un nuovo ingegno per cercare di restare «vicini» seppur confinati in casa. Ciascuno di noi, via social o per telefono cerca di rendersi presente alle persone più fragili: abbiamo aperto un Centro vicariale d’ascolto telefonico per gli ammalati di Covid-19 e i loro familiari, la Caritas vicariale sta distribuendo viveri ai più poveri attraverso le parrocchie, facciamo «challenge on line» per i giovani, un corso di lingua Shipibo e uno per la formazione dei catechisti e degli animatori, si girano link interessanti per lo studio tra i giovani, si inviano celebrazioni da vivere in famiglia e, immancabili, le Messe in streaming. Si cerca, insomma di vivere anche questi giorni continuando a fare i preti, le suore, i laici coinvolti con la gente.
Sulla scia di quanto fatto anche in vicariati vicini, il nostro ha attivato una raccolta fondi, in collaborazione con la Direzione di salute e alcuni imprenditori, per l’acquisto di bombole di ossigeno, valvole e presidi medici per gli ospedali.
Quello che si cerca di fare è una «goccia nell’oceano», pensiamo soprattutto ai villaggi e alle parrocchie fuori città dove non è stato possibile andare per oltre 6 mesi e chissà quando si potrà tornare a visitarle. Però, man mano che il governo ha allentato la stretta del lockdown, abbiamo cominciato a pensare al «post» virus: in agosto abbiamo riaperto le chiese per celebrare le Messe con una presenza di fedeli ridotta e secondo un rigido protocollo, le parrocchie si stanno organizzando per celebrare in forma molto controllata alcuni sacramenti, almeno per gli adulti, e anche la Caritas vicariale ha attivato nuovi progetti in risposta all’emergenza sanitaria nazionale (mense popolari, microcredito per riattivare piccole attività economiche, distribuzione viveri, equipaggiamento medico, bombole di ossigeno e medicinali).
Questo ci dà la forza di andare avanti, come Chiesa di Pucallpa: il suo Spirito che soffia nelle vele «scalchignate» di questo frammento di popolo di Dio in Amazzonia, sconosciuta ai più ma non al Signore, continuerà a suscitare ingegno ed energie per annunciarlo e renderlo presente attraverso la nostra semplice presenza. Maria ci accompagna ogni giorno, come ha accompagnato Gesù, fino ai piedi delle nostra piccole e grandi croci.
Info: www.mimissiopucallpa.it; https://www.facebook.com/VicariatoPucallpa/.