La chiusura della visita pastorale ai migranti nel giorno di Pentecoste ha un sapore programmatico per la Diocesi. Un sapore che va colto e approfondito. Passati gli anni della presa d’atto della presenza straniera tra noi (una presenza che è anche cristiana e cattolica, e non soltanto musulmana, vale la pena ricordarlo), come Chiesa ambrosiana corriamo il rischio dell’assuefazione: esaurito l’effetto novità, si fa in fretta a tornare ai nostri stili consueti e alle nostre pratiche pastorali abitudinarie, nella convinzione che il processo di assimilazione, una volta avviato, porterà i nuovi arrivati a tingersi dei nostri colori abituali, confondendosi e sciogliendosi nel grande e vasto corpo diocesano.
La realtà tuttavia resiste alle nostre idee. E ci mostra un popolo migrante molto più denso e agglutinato, resistente ai nostri processi di assimilazione. Al primo stupore (il loro arrivo) si aggiunge così un secondo livello di stupore: la scoperta di una o addirittura più identità cattoliche che intendono abitare il nostro mondo avendo la pretesa non soltanto di chiederci spazi e accoglienza, ma anche dialogo e interazione, e di conseguenza riconoscimento. Da qui il nostro disorientamento, che si trasforma in resistenza: più di una comunità cattolica straniera ci ha confidato questa impressione di disagio e di giudizio esercitata da noi autoctoni, da noi cattolici ambrosiani, nei loro confronti.
Il miracolo di Pentecoste ci si pone dinanzi proprio con la sua forza simbolica e programmatica: la fede cristiana possiede di suo gli anticorpi per risolvere una simile situazione di stallo e di conflitti potenziali o in atto. Lo Spirito ci è donato per cogliere nelle differenze altrui le tracce della presenza operante e viva di Gesù risorto, e del suo impegno per realizzare quel disegno di raccolta dei popoli in unità che Dio Padre ha immaginato sin dalla creazione del nostro mondo. Una unità che contempli le differenze e le sappia cogliere come dono di Dio, fatto per arricchirci; una cattolicità che non persegue l’imperativo dell’assimilazione uniformante, ma si lascia condurre per i sentieri di una contaminazione reciproca, capace di osare nuove identità meticce, in grado di mostrare dimensioni e attributi inediti della nostra realtà (e anche del volto di Dio).
La chiusura della visita pastorale ai migranti a Pentecoste ha proprio l’intenzione di richiamare questo compito a tutta la realtà diocesana. Come pure la presenza di una parrocchia a loro dedicata: suo obiettivo non è fare dei migranti una realtà separata, ma evitare che i tentativi di integrazione si esauriscono in pratiche di assimilazione destinate al fallimento. Il cammino per preservare l’unità della nostra Chiesa è quello indicatoci dal miracolo di Pentecoste: lasciare che lo stupore ci dia energie per riconoscere nel diverso, nell’altro, i tratti del nostro Dio. È questo l’obiettivo della parrocchia dei migranti, essere in luogo in cui la Pentecoste produce i suoi effetti tutti i giorni dell’anno. Così che lo stupore possa essere usato come energia che dà dinamismo e profondità alla nostra dimensione cattolica.