La quarta giornata del nostro pellegrinaggio è stata vissuta interamente a L’Aquila, all’insegna del tema del perdono e cogliendo i segni di un territorio colpito 15 anni fa da un violentissimo terremoto.
La Bolla di Celestino V
Al nostro arrivo alla Basilica di Santa Maria di Collemaggio veniamo accolti dall’Arcivescovo, il cardinale Giuseppe Petrocchi, e dall’Arcivescovo coadiutore, monsignor Antonio D’Angelo. Nell’incontro vissuto in Basilica, il Cardinale ci ha raccontato come papa San Celestino V – la cui salma è qui esposta per la venerazione – dopo la sua incoronazione nel 1294 con una Bolla concesse la «Perdonanza Celestiniana», l’indulgenza plenaria a chiunque, confessato e comunicato, fosse entrato nella Basilica dai Vespri del 28 agosto a quelli del 29. Nella storia della Chiesa fu la prima indulgenza scritta (quella della Porziuncola fu detta a voce da Onorio III a San Francesco) e gratuita, cioè senza tariffe o condizioni. In occasione della Festa della Perdonanza nel 2022 papa Francesco ha proclamato L’Aquila «capitale del perdono».
Il perdono e i terremoti
Il perdono, ha proseguito il Cardinale, si snoda con quattro cadenze: lasciarsi perdonare, riconciliarsi con se stessi, perdonare, chiedere perdono. Perdonare non vuol dire lasciar perdere o dimenticare: chi perdona vede il male come è, ma reagisce opponendo a questo male un bene fatto bene. Due i terremoti che hanno colpito L’Aquila: uno esteriore della furia geologica che devasta, e uno interiore che spezza le strutture mentali e determina crepe nelle relazioni. Ci sono dolori che non possono essere anestetizzati, ma che vanno rispettati. C’è un diritto di soffrire e un dovere di stare accanto nel rispetto e nel silenzio. La morte ha già perso la battaglia con l’amore: il lutto per un figlio non verrà mai meno, perché l’amore non viene meno e non può essere dimenticato.
La città ricostruita
Nel pomeriggio, divisi a gruppi abbiamo visitato i luoghi più significativi della città per gran parte ricostruita, dalla iconica Fontana delle 99 cannelle alla piazza Battaglioni Alpini, passando per piazza Regina Margherita e il centro storico ricostruito dopo il sisma con un volto abbastanza nuovo. Siamo passati davanti al Duomo di San Massimo sotto restauro, per poi entrare nella basilica di San Bernardino da Siena, che custodisce le spoglie del predicatore francescano morto nel capoluogo abruzzese nel 1444.
Qui abbiamo celebrato l’Eucaristia presieduta dal cardinale Petrocchi, che nell’omelia ci ha ricordato che siamo portatori di una notizia che non trasmettiamo solo per sentito dire, ma in quanto abbiamo fatto esperienza della Pasqua. Noi siamo ciò che diciamo. Siamo chiamati ad accogliere la Parola che Dio ci dà nello Spirito e per questo dobbiamo dire, dirci e lasciarci dire. L’annuncio va fatto nel segno del “noi Chiesa”. Guardando cogliamo la profondità poiché abbiamo due occhi. Allo stesso modo, per esplorare noi stessi dobbiamo usare due occhi: uno è il nostro su noi e l’altro è quello di altri su noi per cogliere la tridimensionalità di se stessi. Bisogna rifuggire la «sindrome dei maestri» che dimenticano di essere discepoli, che riprendono senza lasciarsi riprendere da nessuno.