Mandati nel mondo per servire, parlando la lingua universale che tutti capiscono: l’amore. L’Arcivescovo, che presiede la Celebrazione per l’Ordinazione presbiterale di 5 nuovi sacerdoti missionari del Pontificio Istituto delle Missioni Estere, non è in Duomo – come tradizione -, ma pronuncia questo auspicio nello spazio all’aperto interno al Seminario teologico del Pime di Monza. In tempi di pandemia accade anche questo (i sacerdoti novelli 2020 della Diocesi saranno, invece, da lui ordinati, il prossimo 5 settembre in Cattedrale), ma il Rito è comunque partecipato dai 300 invitati che sono presenti – tanti i parenti dei Diaconi venuti anche da Paesi lontani – e dai molti che lo seguono attraverso i canali social del Pime. Nella breve processione iniziale, accanto al vescovo Mario vi sono il superiore generale dell’Istituto, padre Ferruccio Brambillasca, padre Luigi Bonalumi rettore del Seminario, il vicario generale di Bologna, monsignor Giovanni Silvani. Molti altri presbiteri e docenti del Pime concelebrano, così come parroci amici, il vicario episcopale della Zona pastorale V, monsignor Luciano Angaroni, l’arciprete del Duomo di Monza, monsignor Silvano Provasi, il responsabile dell’Ufficio missionario, don Maurizio Zago. Anche la data non è stata scelta a caso, infatti, il 15 giugno ricorre la festa liturgica del beato Clemente Vismara che, da Agrate Brianza, formato nei seminari di Milano, partì come missionario Pime, vivendo per quasi 70 anni nell’allora Birmania, l’attuale Myanmar. Storie di una lunga militanza missionaria in tempi di «epopea» e storie di vite in missione che iniziano in un tempo molto diverso, come quello attuale dei 5 candidati 2020, tra cui 2 italiani, Ivan Straface e Mauro Pazzi (Diocesi di Bologna), Sravan Kumar Koya dall’India, Fel Catan dalle Filippine e Nathi Lobi dalla Thailandia.
Dopo la presentazione dei Candidati, chiamati per nome, si avvia la riflessione dell’Arcivescovo
L’omelia
«Il mondo è malato. Mai, forse, questa condizione di desolazione e angoscia è risultata evidente come nel nostro tempo. È sempre stato malato, ma la nostra coscienza di popoli del nord del mondo percepisce in modo particolarmente drammatico la situazione perché avverte la sconfitta della propria presunzione e riconosce che l’insidia della malattia si è fatta troppo vicina e troppo inafferrabile». Malattia – questa – che, evidentemente, non si può ridurre solo al Coronavirus, come, peraltro, appare dai giornali e dai notiziari. Quasi che siano dimenticate le malattie di sempre dell’animo umano che il vescovo Mario esemplifica attraverso l’atteggiamento dei Giudei e dei Greci. I primi, «i devoti, che immaginano l’onnipotenza come il dovere di Dio di sistemare le cose, di intervenire in modo prodigioso per dare sollievo, salvezza, guarigione. L’esito di questa aspettativa è il risentimento verso Dio che non fa niente per salvare, che ritarda nell’ascoltare la preghiera, che sembra indifferente alla sorte del suo popolo». I secondi che, «cultori della sapienza e della scienza, contano sulle proprie risorse, non hanno bisogno di pregare, ma solo di studiare, di reperire risorse per la ricerca. Non hanno interesse alle vicende delle persone, ma solo ai risultati, ai numeri, ad arrivare primi al traguardo. Guardano con disprezzo ai percorsi dei devoti e sono indifferenti alle sofferenze, finché la malattia non entra in casa loro e la morte non li sfiora da vicino».
È appunto in questo mondo malato che il Signore manda, comunque, i suoi discepoli e agisce insieme con loro. «Nell’Ordinazione presbiterale che oggi celebriamo si rinnova questa missione e la parola delle Scritture descrive l’intervento di Dio nella storia come un’opera di salvezza che smentisce l’attesa dei miracoli e le presunzioni della sapienza mondana. Il lieto annuncio è, quindi, il mistero di Cristo: la salvezza di Dio entra nella vita e guarisce il mondo malato per la strada percorsa da Gesù. Dunque, siamo, siete mandati sulla via della debolezza di Dio».
Ma come descrivere tale strada? Con il messaggio del Vangelo: «L’invio in tutto il mondo abilita a rendersi comprensibili da parte di ogni creatura. La missione di Gesù non soffre di limitazioni culturali, geografiche, linguistiche. Non è, di per sé, una missione che pretende dei missionari poliglotti, piuttosto richiede di parlare linguaggi che tutti capiscono: la lingua dell’amore». Secondo la logica del motto, tratto dalla I Lettera di Giovanni, scelto dai Candidati del Pime, “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” e che è scritto a grandi lettere nel semplice tableau alle spalle dell’altare. E secondo quella stessa logica che fu l’intera regola di vita del beato Vismara, l’“apostolo della Birmania” che l’Arcivescovo cita.
«In territori così lontani dalla sua Brianza, con lingue così diverse dal suo dialetto brianzolo, padre Vismara ha fatto in modo di farsi capire, perché ha amato, ha servito con quella lingua nuova che tutti capiscono. Questo non esonera dall’imparare bene la lingua dei Paesi dove si svolge la missione, anzi, l’amore spinge a entrare nella cultura per mettere a proprio agio le persone a cui si può annunciare il Vangelo. È una via dell’amore che si fa servizio e dedizione fino al sacrificio. La debolezza di Dio si rivela potenza che salva perché offre la gioia a ogni cuore afflitto. Il Padre non si interessa delle nozioni generali, del “mondo” o dell’“umanità”, ma di ciascuno dei suoi figli e figlie e offre consolazione e salvezza. Non si tratta di una sanatoria generale, ma di un invito alla fede. La debolezza di Dio si presenta alla libertà di ciascuno, come colui che sta alla porta e bussa. Se qualcuno gli apre entrerà per trasfigurare la vita mortale nella vita eterna. È perciò che consacriamo questi nostri fratelli, perché percorrano la via della debolezza di Dio per dare salvezza al mondo malato».
Poi, i suggestivi gesti dell’Ordinazione: l’assunzione degli impegni, con il “Sì, lo voglio, sì lo prometto”; le Litanie, l’imposizione delle mani sul capo dei Candidati, la preghiera di Ordinazione e la vestizione degli abiti sacerdotali, l’unzione delle mani con il Crisma e la consegna simbolica del pane e del vino…, mentre dal cielo si scatena il diluvio come una benedizione sovrabbondante, scherza al termine l’Arcivescovo, dopo che il rettore Bonalumi gli rivolge il suo ringraziamento osservando. «La prontezza con cui lei ha accolto il nostro invito, ci fa sentire particolarmente amati. Questi giovani preti sono così diversi da missionari che, come Vismara, hanno fondato una Chiesa e una Diocesi. Il mondo, la Chiesa, la missione sono cambiati, ma noi crediamo e speriamo che lo spirito sia lo stesso. Quello che Ivan e Fel spenderanno nell’impegno in Italia – come non leggere un segno vivente del mondo globalizzato in un missionario nato nelle Filippine e destinato a Treviso? -; Sravan in 0Cambogia, Mauro in Messico e Nathi nelle Filippine.