Dalla mattina di venerdì 5 fino a lunedì 8 marzo, sono rimasti con gli occhi fissi su un vecchio televisore, per chi ce l’ha, o sul piccolo schermo del cellulare, seguendo passo passo il tanto desiderato viaggio di papa Francesco in Iraq all’insegna del motto «Siete tutti Fratelli». Sono loro, i tanti cristiani iracheni presenti in Turchia.
La pandemia ha impedito persino di radunarsi, di gioire tutti insieme, di partecipare all’evento comunitariamente, e così ogni nucleo familiare ha cercato come ha potuto di accompagnare con trepidazione, entusiasmo e nostalgia struggente, il Papa in questo pellegrinaggio di pace nella loro tanto amata terra.
Avrebbero voluto anche loro essere lì con lui, avrebbero voluto anche loro raccontargli le loro storie, avrebbero voluto anche loro mostrargli i resti delle loro case, avrebbero voluto anche loro cantare e pregare con gioia, ricevere una benedizione. Hanno gioito con il cuore gonfio di lacrime dai divani sgualciti di una casa in terra straniera. Una “terra di mezzo” dove si trovano ormai da anni.
Facciamo un passo indietro.
Nel 2014 i peshmerga curdi ricevettero l’ordine di abbandonare il Nord dell’Iraq, lasciando campo aperto all’avanzata dell’Isis che seminò morte e terrore fino al 2017: tre lunghi anni in cui 6 milioni di persone lasciarono le proprie case per spostarsi in zone più sicure del Paese. Poi forze irachene e curde riconquistarono i territori e oltre quattro milioni di sfollati fecero ritorno. I restanti due milioni vivono tutt’ora nei campi di accoglienza o in altre soluzioni provvisorie: centinaia di migliaia si sono rifugiati nei Paesi vicini, come Turchia e Giordania; numerosi hanno tentato la via dell’Europa, facendo dell’Iraq il terzo Paese di provenienza per numero di richieste d’asilo dopo Siria e Afghanistan. I cristiani sono tuttora la categoria maggiormente a rischio in Iraq: mancanza di sicurezza, molestie e abusi di ogni tipo, intimidazioni e richieste di denaro da parte di milizie e di altri gruppi ostili sono ancor oggi le principali minacce alla loro presenza, soprattutto nella Piana di Ninive.
Sono 1500 le famiglie di profughi cristiani iracheni, circa 5000 persone, assistiti dal Vicariato apostolico dell’Anatolia in Turchia.
In questa sorta di “limbo”, una famiglia “allargata” mi ha invitato a partecipare con loro a questo evento storico. Secondo le regole permesse dalle restrizioni dovute alla pandemia, siamo una decina di persone. Con grande orgoglio reciproco divento una loro “parente acquisita”. Li guardo e noto nei loro occhi un velo di tristezza: con grande pudore mi raccontano la violenta attività delle milizie locali e la possibilità di un ritorno del sedicente Stato Islamico.
Mentre aspettiamo l’arrivo del Papa, mi mostrano qualche foto sul cellulare: uniche “reliquie” preziose che conservano dalla loro fuga improvvisata. Yusuf, con il terrore ancora profondamente scolpito nel cuore, mi dice che è scampato per miracolo alla strage compiuta da un gruppo armato a Mosul. Nadir confessa quasi con vergogna di essere fuggito dall’Iraq dopo essersi rifiutato di arruolarsi e aver visto il fratello assassinato dall’Isis. Meryem, timidamente, dice di aver provato la strada per l’Europa con le sue tre figlie – tre adolescenti slanciate dagli occhi color mare -, angosciata per il loro futuro dopo la morte del marito, ma di essere stata bloccata in questa “terra di mezzo” in cui si trova da anni nella speranza che qualche porta si apra anche per loro. Purtroppo si sentono rifugiati di “serie B”: per loro non esiste uno statuto che gli permetta di essere “richiedenti asilo” nell’Ue. Ora, poi, la pandemia ha aggravato ancora di più la situazione. Sono rimaste bloccate anche quelle famiglie a cui era stato già concesso il visto per Canada e Australia.
Si asciugano le lacrime con la manica del vestito più bello, messo appositamente per “assistere degnamente” alla Messa con il Papa ad Erbil, la loro città. L’emozione è grande: «Il nostro Paese sanguina da anni e spero davvero che questo viaggio porti pace. Ammiro il coraggio di papa Francesco: grazie per non essersi rassegnato né al virus della guerra e dell’odio, né al Covid 19», afferma la giovane Yasemin, con gli occhi lucidi puntati sulle macerie della sua città mostrate da un drone che sorvola tanta desolazione. Immedesimandosi in quell’occhio meccanico cerca di intravedere luoghi a lei ben noti. Tra la folla festosa le pare di riconoscere una zia che agita un foulard giallo, quasi a salutarla. E la sua felicità è subito contagiosa. La novantenne nonna Katrin mi fissa con quei suoi occhi ancora vispi, penetranti come spilli: «E se provassimo a ritornare nella terra dei nostri avi?», ma la paura è ancora tanta.
Poi le preghiere nella loro lingua caldea, i canti gioiosi, l’esultanza della folla, le parole accorate del Papa diventano un balsamo sulle ferite, una consolazione al cuore.
La profonda partecipazione di papa Francesco al dolore di questo popolo, la vicinanza alla sua tragedia ha rafforzato in loro la speranza e la fiducia per un futuro nuovo, migliore, in cui poter ritornare a sentirsi fratelli. Tutti.
Grazie, papa Francesco, per aver mostrato al mondo che esistono anche loro. Da troppo tempo abbandonati e discriminati ti sei fatto loro vicino. Grazie per esserci stato di esempio con gesti concreti di prossimità. Grazie per aver ricordato a noi cristiani d’Occidente le nostre responsabilità e per aver restituito a loro cristiani d’Oriente il coraggio e la voglia di sognare.