«Sorpresa, emozione e commozione». Sono questi i sentimenti con cui monsignor Flavio Pace, che verrà ordinato vescovo dall’Arcivescovo sabato 4 maggio alle 15 in Duomo (diretta su Telenova, www.chiesadimilano.it e www.youtube.com/chiesadimilano), vive i giorni che lo avvicinano alla sua entrata nella successione apostolica. «Ma la parola ultima la lascio al Signore e mi affido a Lui», aggiunge subito. Insieme a monsignor Delpini, i vescovi con-consacranti saranno il cardinale Leonardo Sandri, Vice-Decano del Collegio cardinalizio, e il cardinale Kurt Koch, Prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani. Tra i concelebranti sono attesi anche i cardinali Coccopalmerio e Gugerotti, numerosi altri vescovi e padre Francesco Patton, Custode di Terrasanta (vedi qui il libretto liturgico).
Monsignor Pace, lei è un sacerdote ambrosiano. Da quanti anni manca dalla Diocesi e quale è stata la sua carriera ecclesiastica?
Sono felicemente e orgogliosamente prete ambrosiano, ordinato dall’indimenticabile cardinale Martini nel 2002. Faccio parte, infatti, del gruppo che lui aveva definito fin dal diaconato «filii senectutis», come Giacobbe chiamava Beniamino, il figlio avuto in tarda età. L’allora Arcivescovo alludeva al fatto che eravamo l’ultima classe che avrebbe ordinato nel suo episcopato milanese. Siamo stati un poco un’eccezione, perché abbiamo fatto la vestizione non in Duomo, ma a Seveso, e l’ordinazione diaconale nella Basilica del Seminario il 29 settembre 2001. Il primo incarico pastorale per me è stato quello di coadiutore, per 9 anni, nell’oratorio San Gaetano ad Abbiategrasso, successivamente inserito nella Comunità pastorale San Carlo. Sempre ad Abbiategrasso ho svolto anche il compito di cappellano dell’hospice e ho insegnato al liceo dell’Istituto omnicomprensivo “Vittorio Bachelet”. Quindi, ho avviato il mio ministero con un’immersione totale nella pastorale e ne sono molto contento.
Poi?
Ho compiuto studi specialistici a Roma e ho iniziato a lavorare nella Congregazione per le Chiese Orientali, ora Dicastero, che è la realtà che, a nome del Papa, mantiene il legame con i Copti, i Maroniti, i Greco-cattolici di Rito bizantino dell’Ucraina e altri. Questo mi ha aperto un mondo fatto, per così dire, di mondi diversi tra loro, ma sempre in comunione con il Santo Padre. Questo periodo mi ha preparato all’ulteriore passaggio, per me del tutto inaspettato: la nomina, il 23 febbraio scorso, a segretario del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Quindi si è aperto un ulteriore ampliamento dell’orizzonte ecclesiale?
Certamente, perché in questo Dicastero i rapporti di vicinanza e di fraternità sono intrattenuti con tutti i cristiani anche non cattolici, sia quelli delle Chiese ortodosse orientali, sia quelli della Riforma. All’interno del Dicastero opera anche la Commissione per il Dialogo con l’Ebraismo.
Cosa porta con sé dell’essere ambrosiano?
Io sono nato a Monza, il che significa essere dell’Arcidiocesi di Milano, ma allevato con il latte materno romano, perché a Monza vige il Rito romano. Anzi, mi ricordo le fraterne prese in giro dei dai miei compagni in Seminario, che mi dicevano: «Ma tu non sei dei nostri…». In realtà, questo mi ha consentito di entrare in un mondo che per me era nuovo – perché la liturgia non è una formalità, ma un elemento decisivo che fa la Chiesa – per cui, negli anni in Seminario, più i nove di ministero pastorale, ho imparato a fare mia la tradizione liturgica ambrosiana dalla quale faccio fatica tutt’ora a distaccarmi, avendo creato in me una spiritualità, un modo di pensarsi, di vivere con i ritmi che il calendario liturgico prevedeva. Questo mi ha educato, già in Seminario, a pensare la diversità, anche all’interno della Chiesa, non come un ostacolo alla comunione, ma come un elemento che manifesta la comunione, proprio perché la diversità non è lo scontro di opposti, ma è la comunione di diversi. Ho potuto così vivere l’esperienza dell’incontro con le Chiese orientali cattoliche a partire da questo tesoro, anche perché noi ambrosiani abbiamo la certezza che, come diceva Ambrogio, Ubi Petrus, ibi Ecclesia mediolanensis, dove c’è Pietro, c’è la Chiesa di Milano, pur con la sua tradizione diversa e il suo rito visibilmente differente, che è e rimane una ricchezza.
Insomma, l’ambrosianità come imprinting anche per comprendere la Chiesa universale?
Direi di sì, così come sento con forza, nel mio essere prete, la capacità pastorale ambrosiana di farsi prossimo a tutti nell’incontro con le persone, di stare sul territorio, con uno stile che si può portare anche in un ufficio di Curia. Vi è inoltre qualcosa di molto bello nel nostro Rito, ma di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. In questi anni ho avuto la possibilità di sperimentare liturgie diversissime tra loro, ma la Chiesa ambrosiana in tutto il mondo – cattolico e non cattolico – è l’unica che, nella sua liturgia, al Vespero, ogni giorno in forma più solenne o meno, commemora il battesimo, suggerendoci quotidianamente di ripartire dall’inizio della relazione con il Signore. Un’indicazione molto feconda, vivendo l’esperienza del dialogo ecumenico, perché tale dialogo si basa su l’unica certezza che siamo tutti battezzati in Cristo.
Che motto e stemma episcopali ha scelto?
Il motto episcopale è ambrosianissimo, perché è la conclusione dell’Inno di sant’Ambrogio, Deus Creator Omnium, e si compone di queste parole: Fove Precantes Trinitas, che aprono il cuore a essere tutti insieme davanti al mistero della Trinità, a implorare – precantes -, che sia la Trinità a generarci alla vita nuova ogni giorno, perché il verbo fovere è esattamente il verbo del generare alla vita. Nello stemma vi è, anzitutto, il simbolo della roccia che evoca la roccia che è Cristo. Al centro sta la civetta nimbata che, secondo la tradizione, rappresenta Cristo e la Sapienza divina, perché nelle tenebre di oggi, aggravate dalla divisione tra i cristiani, bisogna recuperare lo sguardo di Cristo per saper scorgere nuove strade di riconciliazione e comunione, simboleggiate dal ramo di ulivo che la civetta tiene salda. Infine si scorge la luna – come è rappresentata nell’antico stemma di Monza, la mia città di origine -, che evoca anche il mysterium lunae con il quale i Padri, in particolare Sant’Ambrogio, amavano definire la Chiesa (vedi qui l’immagine e la descrizione dello stemma).