La beatificazione – sabato 3 febbraio, alle 10.30, nel Palazzetto dello Sport di Vigevano – di Teresio Olivelli, morto a 29 anni il 17 gennaio 1945 in un lager nazista, dopo aver ricevuto percosse per aver aiutato un compagno di prigionia, non solo porta sugli altari un giovane straordinario riconosciuto «martire ucciso in odio alla fede cristiana» dopo un impegnativo percorso processuale, ma offre l’opportunità di far conoscere alle nuove generazioni l’autentica testimonianza del laico definito da don Primo Mazzolari «lo spirito più cristiano del nostro secondo Risorgimento». Un uomo di carità che della propria vita fece «un’offerta integrale di sé, al fine di proteggere i fratelli più deboli e sofferenti», «fedele discepolo di Cristo» che antepose «la fedeltà al Vangelo a ogni logica umana» per usare le parole di monsignor Maurizio Gervasoni, vescovo di Vigevano, la Diocesi che trent’anni fa avviò la causa di beatificazione e che ora ospita il rito.
Carità elevata a dono
In ogni caso – ben oltre quelle che furono via via le sue comunità di appartenenza e di riferimento, o le fasi della sua breve vita – davvero la parabola umana e spirituale di Olivelli scuote tanta mediocrità del nostro vivere, mostrandoci, insieme a una fede che guarda al valore redentivo della Croce, una carità elevata a dono di amore fino al sacrificio di sé. È quanto emerge dalle pagine di chi quest’avventura cristiana l’ha narrata e interpretata (da ricordare, tra le altre, la biografia di Paolo Rizzi L’amore che tutto vince: vita ed eroismo cristiano di Teresio Olivelli, edita dalla Lev nel 2004, o l’opera più divulgativa di Renzo e Domenico Agasso dal titolo Il difensore dei deboli, uscita per i tipi della San Paolo nel 2016, senza dimenticare quella storica di Alberto Caracciolo Teresio Olivelli, edita nel 1975 da La Scuola). Chi ha approfondito la vicenda olivelliana ha dovuto prendere atto di una scommessa tutta concentrata sulla rivolta interiore prima che politica, sociale, armata, e su una ribellione come stigma dell’amore cristiano.
La formazione tra l’Ac e la San Vincenzo
Nato a Bellagio nel 1916, ma cresciuto nella Lomellina, dove la sua famiglia si era trasferita quando lui aveva sette anni, una formazione tutta fra Azione cattolica e San Vincenzo, ginnasio a Mortara, liceo a Vigevano, università a Pavia alla facoltà di Giurisprudenza – risiedendo nel Collegio Ghislieri -, poi assistente alla cattedra di diritto amministrativo presso l’Università di Torino, Olivelli aveva abbracciato in quel periodo gli ideali del fascismo, diventando nel 1940 segretario del Servizio studi dell’Istituto nazionale di cultura fascista e poi rappresentante del Partito nazionale fascista presso il Consiglio superiore di Demografia e razza al Ministero dell’Interno. Un’adesione al regime, la sua («di natura più psicologica che ideologica», è stato detto), nella convinzione – come pensava padre Gemelli – di cattolicizzare il fascismo dall’interno.
Durante la Seconda guerra mondiale Olivelli combatté fra gli Alpini sul fronte russo e visse la drammatica ritirata dell’Armir. Tornato in patria nel marzo del 1943, chiuse i conti con il fascismo, al quale già prima di partire aveva guardato con disillusione. Richiamato in servizio nel successivo mese di luglio, al momento dell’Armistizio (8 settembre 1943), rifiutatosi di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò, fu deportato in Austria. Da lì riuscì a fuggire a fine ottobre, stabilendosi a Milano e svolgendo nella clandestinità funzioni di collegamento tra il Comitato di liberazione nazionale e i partigiani delle Fiamme Verdi di Brescia e Cremona: da «ribelle» – come il nome del giornale da lui fondato con Claudio Sartori, su cui disegnò le linee della futura Ricostruzione -, ma «per amore».
Arrestato a Milano il 27 aprile 1944 e imprigionato a San Vittore, dove fu torturato (gli erano stati trovati addosso documenti compromettenti ed evitò la fucilazione per l’intervento dell’arcivescovo di Milano, il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster), fu trasferito nei campi di Fossoli e Bolzano-Gries, e all’inizio di settembre partì per il lager di Flossemburg, a nord-est di Norimberga dove, pur in una situazione dove c’erano solo fatica, fame, freddo e percosse, animò i suoi compagni. Quando nelle giornate più gelide i prigionieri formavano le cosiddette «stufe umane», stringendosi l’uno addosso all’altro per scaldarsi, era lui a provare a rincuorarli con brani del Vangelo, che conosceva a memoria.
In settembre, già destinato a Kottern (un sotto-campo di Dachau, dove in officina e negli uffici la vita era meno pesante), decise di aggiungersi ai meno fortunati destinati a Hersbruck, dove si lavorava nelle cave e la morte era quasi certa. Motivò così la sua decisione: «Non posso lasciarli soli, vado con loro» (titolo ora di una nuova pubblicazione di monsignor Rizzi edita da Effatà). Un episodio, tra i molti raccolti nella Positio redatta per la causa di beatificazione, a dimostrare l’attitudine di Teresio a non escludere il sacrificio di sé pur di stare accanto ai più deboli.
Hersbruck fu la sua via del Calvario. Lì, a causa dei lavori forzati, il suo fisico si indebolì completamente, fino alla morte il 17 gennaio 1945, provocata dalle percosse sferrategli da un kapò per aver cercato di aiutare un prigioniero, vittima dell’odio dei nazisti a causa della sua fede e dell’evangelizzazione svolta con la sua persona in quell’inferno. Un martirio riconosciuto, che ha esentato Olivelli dall’accertamento di un miracolo, portando così alla sua attesa beatificazione.