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Sirio 11 - 17 novembre 2024
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Intervista

«Non siamo alla fine della storia
in Terra Santa, anzi…»

Padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, per descrivere come le comunità cristiane di Terra Santa vivono la Pasqua, ripercorre il passo evangelico di Marco, al capitolo 16, quello della tomba vuota di Cristo: «Il vero sepolcro da aprire è credere che non sia possibile cambiare nulla». E invece occorre sperare e saper vedere i segni della solidarietà e del riscatto

di Daniele ROCCHI

4 Aprile 2015

«Il vero sepolcro da aprire è credere che non sia possibile cambiare nulla». Ripercorre il passo evangelico di Marco, al capitolo 16, quello della tomba vuota di Cristo, padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, per descrivere come le comunità cristiane di Terra Santa si apprestano a vivere la prossima Pasqua. Gli echi, nemmeno troppo lontani, delle violenze in Siria, in Iraq, delle persecuzioni delle minoranze non solo cristiane, delle sofferenze dei milioni di rifugiati, ma anche gli annosi problemi che vessano la Terra Santa, il conflitto israelo-palestinese, l’esodo dei cristiani, la mancanza di lavoro e di prospettive future, le famiglie separate dall’occupazione militare, sono questi «i sepolcri da aprire per fare entrare la luce di Cristo e ridare così speranza e vita». «Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?», dicevano le donne mentre andavano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù con olii aromatici. Ma «guardando videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande».

Padre Pizzaballa, chi aprirà tutti questi sepolcri di cui è piena la Terra Santa?
La Pasqua ci insegna che Cristo ha consegnato la sua vita e consegnandola l’ha cambiata a tutti. E’ una forza che non è nostra e alla quale ci consegniamo. Deve essere questo il messaggio. Se contiamo solo sulle nostre forze non ce la faremo.

Il sepolcro che rinchiude, da troppo tempo, la pace, sembra inespugnabile…
La Pasqua porti coraggio e visione a chi ha le responsabilità delle decisioni. Le strategie sono importanti, l’organizzazione anche, tutto quello che è necessario fare deve essere fatto. Dobbiamo impegnarci per la pace, guai a noi se non lo facessimo – è parte della nostra missione qui -, ma non siamo solo noi. Se non alziamo lo sguardo non riusciremo a leggere la storia per poterne poi superare le difficoltà che ci pone davanti. Alzare lo sguardo è avere una visione del “dopo”, pensare alle generazioni future. Non alzarlo è abdicare alla speranza.

La mancanza di prospettive future per i giovani, l’emigrazione continua sono altri sepolcri dei quali far rotolare via la pietra. Ma come?
La Terra Santa è luogo di passione, ma guai a credere che sia solo questo. I giovani vanno esortati ad impegnarsi perché ci sono tanti segni di luce, gente che prova a costruirsi percorsi di vita. I giovani devono dare forza a queste luci e a questa speranza, innanzitutto con fantasia, entusiasmo. L’emigrazione è un problema, sono tanti quelli che partono, ma sono molti quelli che restano. Temi come lavoro, casa, famiglia, futuro, vanno affrontate con realismo. I giovani devono scommettere, darsi da fare per conquistare ciò che è possibile nella consapevolezza che non si può avere tutto. Il primo sepolcro da scardinare è credere che non sia possibile cambiare nulla».

A soffrire non sono solo i giovani ma anche tante famiglie divise a causa dell’occupazione militare…
La Terra Santa è piena di divisioni, e quella delle famiglie, soprattutto palestinesi, è una di queste. Le divisioni nascono proprio dall’incapacità di vedere l’uno i bisogni dell’altro. Si resta confinati dentro le proprie visioni. Anche in questo ambito occorre avere la forza e la pazienza di lavorare, aiutare e, laddove non si riesce, di consolare.

Le drammatiche condizioni in cui vivono associano i milioni di rifugiati siriani e iracheni alla Passione di Cristo. Come parlare loro di Resurrezione?
Guai a noi a pensare che sia tutto finito. Se guardiamo alla storia della presenza cristiana in Medio Oriente ci accorgiamo che non è la prima volta che si subiscono violenze. Penso al genocidio armeno di 100 anni fa. Dovevano morire tutti, erano due o tre milioni, oggi ne sono circa venti. Senza nulla togliere alla drammaticità del momento, non dobbiamo pensare che siamo alla fine della storia. Questa la facciamo anche noi con la nostra vita, il nostro cuore e soprattutto con la nostra forza interiore. Per questa gente bisogna darsi da fare, con la solidarietà certamente, ma anche con la vicinanza spirituale. Hanno una forza dentro che nessun terrorista potrà mai scalfire. La rabbia che si può covare nel vedere tanta violenza perpetrata contro le minoranze, non solo cristiane, deve diventare spinta a porre domande forti alle autorità politiche, alla comunità internazionale, ai media, perché tengano accesa l’attenzione su questa realtà drammatica.

Parlava di solidarietà: le opere della Chiesa, le scuole, gli ospedali, la cura degli anziani, dei giovani, sono tante piccole luci che rischiarano le tenebre di questa Terra. Cosa manca a queste fiammelle perché diventino luce forte?
Manca un po’ di coordinamento, di conoscenza approfondita dei bisogni. In questo ambito il lavoro da fare è ancora molto. Tuttavia è bello vedere tanta solidarietà che è l’antidoto più potente alla violenza dei terroristi, come lo Stato islamico che vuole troncare la vita delle nostre comunità. Ma non ci riuscirà.

Ha un augurio personale da fare per questa Pasqua?
C’è un detto nella letteratura rabbinica che dice: «Un cuore integro è spezzato». Perché un cuore spezzato è sempre desideroso di ricostituire la propria integrità perduta, è assetato e alla ricerca di unità. Il mio augurio è che in questa Pasqua il cuore di ciascuno si lasci spezzare…