Nella giornata in cui si celebrano i Vesperi primi del Triduo dell’Esaltazione della Santa Croce con il tradizionale Rito della Nivola, è l’Arcivescovo Mario Delpini, cui sono accanto i Canonici del Capitolo metropolitano, a ricordare il senso vero della croce di Cristo simboleggiata dal Santo Chiodo. La reliquia più preziosa della nostra Chiesa, emblema della Passione e, appunto, della croce, la cui presenza è attestata fin dal 1263 nella basilica di Santa Tecla e, in Duomo, dal 1461. Reliquia particolarmente cara a san Carlo, come a tutti i suoi successori, che, appunto, stretta tra le mani del vescovo Delpini, “scende” dalla sua consueta collocazione, a 42 metri di altezza al vertice del catino dell’abside, per essere posizionata in altare maggiore, dove rimarrà esposta alla venerazione dei fedeli fino al termine del Triduo, lunedì 16 settembre, con la Messa Capitolare infra Vesperas.
Il Rito della Nivola
E, così, se ad attirare l’attenzione dei moltissimi presenti in Duomo è, appunto, il Rito con cui, sulla “Nivola” – la sorta di “ascensore” cinquecentesco a forma di nuvola magnificamente decorato – l’Arcivescovo sale fino alla sommità della volta absidale, ridiscendendone con la grande croce lignea dorata che contiene il Santo Chiodo, il pensiero non può che andare al di là della suggestione rituale. Anche se, davvero, i Vesperi primi dell’Esaltazione della Santa Croce, con il lucernario, l’Inno, la salmodia, le orazioni, inframezzate, appunto, dal Rito della Nivola, i canti eseguiti dalla Cappella musicale accompagnata, per l’occasione, da un ensemble di 10 ottoni, rendono – se è possibile – ancora più magnifica la Cattedrale e coinvolgente la celebrazione. La cui omelia si incentra «sul principio di comunione» nelle diverse stagioni della vita, fin dalla nascita.
La libertà e la solitudine
«Si nasce generati da una comunione. Si nasce e si può vivere perché accolti da una sollecitudine. Si impara a sorridere perché si risponde a un sorriso, si impara a parlare perché si risponde a una parola. Nascere è rispondere, muovere i primi passi richiede di essere rassicurati da una mano tesa, da un abbraccio promesso».
Quell’abbraccio che dovrebbe continuare a circondare tutta l’esistenza, mentre «nel percorso della liberta contemporanea» – nota il vescovo Delpini – «diventare grandi diventa cercare la possibilità di essere soli, pretendere di essere indipendenti, immaginarsi che essere liberi significhi essere senza legami, porsi come criterio del bene e del male, parlare per essere ascoltati, per esprimersi, non per comunicare. La casa diventa un appartamento, l’abitare un appartarsi. La sicurezza è assicurata dalla separazione corazzata che si vorrebbe inaccessibile. La tranquillità è il frutto dell’anonimato: mettere un numero sul citofono, per non essere disturbati».
Insomma, «si nasce in una comunione, ma ci si prepara a morire in una solitudine».
La morte in croce principio di comunione
Eppure «a contrastare questa scelta o piuttosto questa disgrazia, viene offerta la grazia di questo morire di Gesù che crea la comunione. Nel morire di Gesù si compie la scelta di amare fino alla fine. Questa morte di Gesù contrasta il destino di solitudine che angoscia uomini e donne al punto da ritenere insopportabile la vita. Questo morire di Gesù è, al contrario, principio di comunione.Perciò nasce la Chiesa, perciò dall’alto della croce, Gesù con la sua Parola indica una relazione nuova. Gesù non vuole che nessuno sia solo».
La città delle solitudini
Chiaro il riferimento dell’Arcivescovo, ancora all’oggi e il monito. «Nella città della solitudine, nel tempo della paura, nei giorni in cui gli altri, la società, le notizie sono motivo di angoscia che induce a rintanarsi in un isolamento, in questa città coloro che ascoltano la parola di Gesù diventano operatori a servizio del desiderio di Dio di radunare in una comunione lieta e fiduciosa tutti i suoi figli dispersi».
Infine, la benedizione dall’altare maggiore impartita dall’Arcivescovo con la croce contenente il Santo Chiodo esposta poi alla venerazione dei fedeli.