«Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce», diceva Laozi ai suoi discepoli nel VI secolo a.C., fra i quali, probabilmente, c’era Confucio. Si può immaginare che l’albero che, cadendo, ha fatto molto rumore sulla vita nella nostra società è il Covid-19, in tutti questi mesi ospite fisso in casa nostra. Giornali, radio, televisioni, internet lo hanno reso un ospite quotidiano. E, con il Covid, sono diventate popolari tutta una serie di parole che invitano ad assumere nuovi comportamenti sociali. Ecco, quindi, lockdown, smart working, sanificazione, distanziamento, zona rossa, mascherina mp2. Si è arrivato perfino a riproporre la parola «coprifuoco», retaggio dell’ultima guerra mondiale.
Insomma, l’albero che cade ha fatto veramente molto rumore. Ha cambiato la vita di tutti noi in questi lunghi mesi. Non solo. Pian piano si registrano i grandi danni prodotti dal Covid sul mondo della scuola, su quello del lavoro, sulla salute pubblica. La Caritas, fin dallo scorso mese di aprile, già avvertiva che i «nuovi poveri» erano passati dal 31% al 45% della popolazione. Ora i dati sono ancora più preoccupanti, per tutti, quando si registra che più della metà delle famiglie italiane sta subendo una riduzione del reddito familiare, al punto che la Caritas è intervenuta a sostegno di circa 450mila persone.
Un grande albero è caduto. È iniziata una grande crisi. Eppure, «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla chiudendoci in noi stessi», diceva papa Francesco nell’omelia di Pentecoste. Proprio per questo i Vescovi italiani, domenica scorsa, hanno voluto dire una parola per non sprecare questo momento. Piccolo segno di una foresta che cresce. Certo, non fa rumore. Hanno ricordato che tutti noi stiamo vivendo un tempo di smarrimento, ansia, dubbi, disperazione. Non si possono ignorare gli oltre 51 mila morti per Covid. Questo fatto incute paura. Non si può non dire grazie ai 216 medici morti per assistere i malati. È la prova tangibile di quanto siamo indifesi. Non si possono escludere dalla preghiera quanti non hanno retto al tracollo economico e allo stress e si sono suicidati.
Per far crescere la foresta occorre una parola amica che sappia prendersi cura delle donne e degli uomini. Questo è tempo per invitare, come l’Apostolo Paolo, a essere «lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera». Tempo, come scrivevano già i Vescovi lombardi alle loro comunità a settembre, per offrire un «pensiero sapiente e saggio nato dalla riflessione, dalla conversazione qualificata, dalla preghiera». I Vescovi italiani scrivono che occorre «offrire speranza». Lo dicono oggi, proprio oggi, quando «i segni di morte balzano agli occhi e s’impongono attraverso i mezzi di comunicazione». Una speranza che rinsalda legami e diventa «dimostrazione che stiamo vivendo un tempo di possibile rinascita sociale». Forse lo scrivono pensando anche al lavoro delle 153 Caritas sparse in tutta l’Italia. Forse hanno negli occhi la passione, il servizio, la generosità dei tanti «piccoli ma significativi gesti di amore» che si possono registrare anche grazie ai 62.186 operatori delle Caritas. Forse, i Vescovi italiani, hanno davanti a loro la vita dei 123 loro preti morti in questa pandemia. Una vita donata per amore. Anche quella, piccola foresta che cresce, anche se per molti di loro la morte è stata semplicemente l’epilogo del loro servire i fratelli fino alla fine.
Ecco, la foresta che cresce dice che «imparare a prendersi cura gli uni degli altri non è un principio altisonante e retorico, ma la proposta di praticare il gesto minimo che dà volto di fraternità alla società, che coltiva l’arte del buon vicinato, che vive la professione e il tempo libero come occasioni per servire al bene comune».