«Nei momenti drammatici che abbiamo vissuto, abbiamo potuto riconoscere la grandezza dell’umanità. La coscienza di essere vivi e desiderosi di vivere bene, la coltivazione degli affetti e della tenerezza, la serietà nel proprio dovere e la generosità nella solidarietà, la riconoscenza e la fiducia in Dio non solo ci danno motivi per cantare il Te Deum, ma ci incoraggiano a continuare a percorrere il cammino che ci sta davanti. A vivere questo momento in modo da essere degni della nostra vocazione e fiduciosi nelle nostre possibilità di far fronte alle sfide, di vincere le battaglie, di ammettere le sconfitte, nella sapienza e nella fierezza».
Nell’ultima Celebrazione dell’ultimo giorno dell’anno n- quando cantare il Te Deum di ringraziamento pare tanto più difficile che nel passato – le parole che l’Arcivescovo scandisce, nella parrocchia di San Fedele, sono il segno di una fiducia e di una speranza viva nel Signore e negli uomini e donne creati a sua immagine.
In chiesa, dove trovano posto solo un centinaio di fedeli, nel rispetto delle regole, concelebrano il Rito – al quale partecipa anche la vicesindaco, Anna Scavuzzo con la fascia del Primo cittadino – 11 presbiteri, molti dei quali appartenenti alla Comunità dei Gesuiti, a cui è affidata la parrocchia. Accanto al Vescovo siedono i padri Maurizio Teani e Giacomo Costa, rispettivamente parroco di “San Fedele” e presidente della Fondazione culturale omonima.
«Ci troviamo anche alla fine di questo anno difficile per ringraziare il Signore e chiedere la sapienza del cuore e il suo sguardo dall’alto», dice, in apertura padre Teani, a cui risponde il vescovo Mario. «Ringrazio la comunità dei Gesuiti che, in condizioni di sicurezza, ci permette di essere qui in questo momento che è insieme di festa, di trepidazione e di speranza».
Quella speranza, a poche ore dall’alba di un nuovo anno, che si fa quasi inno, appunto alla grandezza dell’umanità. «Ecco perché cantiamo il Te Deum a conclusione di un anno segnato da tante sofferenze, tante morti, tante preoccupazioni, tante confusioni. Si può dire che è stato un anno di sconfitte: un organismo invisibile ha umiliato l’organizzazione, la scienza, i progetti, l’iniziativa di tutta intera l’umanità, ma ha rivelato quanto gli uomini e le donne siano tragicamente grandi».
Proprio perché, «di fronte alla pandemia, alla minaccia di malattia e di morte che ha percorso tutta la terra, non hanno chinato il capo: hanno posto domande, cercato rimedi, hanno protestato, discusso, meditato e pregato».
Umanità grande, ma di una grandezza tragica, «perché la sua protesta, che chiama in causa il cielo e la terra, si rivela impotente e sconfitta», eppure cosciente, dotata di pensiero, secondo la famosa definizione di Blaise Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa”. Con un cuore che pensa e che soffre (tanto) di fronte alla mancanza, come molte volte è accaduto e accade, di un ultimo saluto o di un’estrema carezza per chi è morto da solo. Una delle ferite più profonde che tormenta, «tra i molti aspetti della tribolazione che stiamo vivendo», riconosce l’Arcivescovo.
In questo, la gente rivela la profondità del suo sentire e una dimensione commovente. «Siamo vivi di una vita che ci lega, fatti per volerci bene e per esprimere il volerci bene nei gesti della tenerezza. Non ci bastano i rapporti funzionali, non cerchiamo sicurezza nell’isolamento, riteniamo stupida la domanda su cosa serva una carezza».
E, poi, accanto a questo – anzi, forse, proprio per questo senso innatamente umano -, la grandezza della solidarietà.
«In mesi, nei quali in molti modi è stata diffuso, come una ossessione, il pericolo del contagio ed è stato cancellato il mondo e le sue tragedie, come se l’unico problema fosse il Covid 19, uomini e donne sono rimasti al loro posto, là dove era più evidente il pericolo. Non hanno fatto solo il loro lavoro, hanno fatto di più, ritenendo irrinunciabile la solidarietà. Si sono fatti avanti per soccorrere il bisogno dei più fragili. Si sono ingegnati a trovare soluzioni per problemi insolubili, perché non sopportano di lasciare senza risposta una domanda, senza soccorso una necessità».
Una grandezza possibile, continua l’Arcivescovo, perché fondata su una vocazione che «nasce dalla familiarità con Dio».
Da qui, «la fierezza di appartenere a questa grandezza – che, forse, la cronaca finisce quasi per occultare – di un’umanità santa, chiamata a meravigliose realizzazioni perché amata da Dio».
La Celebrazione del Te Deum al Pio Albergo Trivulzio
In uno dei luoghi simbolo, per l’intero Paese, della tragedia pandemica, il Pio Albergo Trivulzio, l’Arcivescovo era, invece, arrivato nel pomeriggio per cantare il Te Deum, come tutti gli anni, ma in un anno diverso da tutti.
Di fronte a lui, le massime autorità locali – il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, il sindaco di Milano, Beppe Sala, il prefetto Renato Saccone -; i vertici dell’“Azienda di Servizi alla Persona Istituti Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio”, senza dimenticare i rappresentati del personale sanitario e amministrativo. A concelebrare il Rito, il cappellano rettore della Cappellania “Immacolata Concezione”, don Carlo Stucchi che ha porto il suo saluto di benvenuto.
Anche in questo caso, chiare, concrete e piene di fiducia, le espressioni dell’omelia che il vescovo Mario ha rivolto a tutti. «In questo anno tribolato e complicato, dobbiamo chiedere al Signore di essere modesti anelli di una catena che è la vita. Soprattutto considerando le fatiche che coloro che lavorano al “Trivulzio”, hanno dovuto affrontare, sentiamo questo passaggio di anno come un momento di riflessione speciale. Nessuno presume di essere perfetto o di salvare il mondo, ma vogliamo chiedere al Signore la grazia di resistere, di essere umili e affidabili servitori di una continuità».
«Un concetto che vale per le famiglie come per le Istituzioni. «L’anello della catena ha una spiritualità che si collega al passato, con le dimensioni della riconoscenza e del perdono», ma ha senso se riconosce anche gli altri anelli, rendendosi disponibile al futuro».
«La nostra fierezza è dire: abbiamo fatto quello che dovevamo fare, abbiamo resistito, talvolta abbiamo ricevuto critiche e reazioni ostili, abbiamo sentito il peso del carico da portare, ma siamo rimasti. Questa è la fierezza con cui possiamo guardare con fiducia al futuro. Sono qui per rendere omaggio a questa Istituzione e farmi voce della gratitudine di tante persone, famiglie e ospiti che sono convinti di avere nel Pat un sostegno indispensabile. Sono qui per dire la gratitudine e una parola di consolazione se vi sono state critiche ingiuste e amarezze non motivate. Vogliamo ringraziare il Signore che ci ha permesso di resistere nell’anno passato e chiedere di continuare a resistere nel tempo che viene».