«Natale è il periodo più carico di ricordi – dice don Marco Recalcati, cappellano di San Vittore -. I ricordi sono legati ai momenti più dolci che i detenuti vivevano in casa con le persone più amate, nella famiglia di origine, anche quando era piccoli, e poi in seguito, quando hanno costruito una propria famiglia».
La sofferenza cresce ancora di più quando si è lontani: l’incontro e il colloquio di un’ora alla settimana o la telefonata a casa di 10 minuti non può bastare a colmare quel vuoto di affetto che la detenzione impone a chi è dentro e a chi è fuori. È in occasioni come queste che si può assistere, anche dietro le sbarre, a gesti di solidarietà e sostegno concreto. «C’è anche tanta cura e attenzione tra loro – assicura il cappellano -, sostenendo chi ha la famiglia lontana, che non vive in Italia, oppure soffre per rapporti familiari logori. Per loro rimane solo il ricordo». Eppure, anche tra gli inquilini di piazza Filangieri, pur nella sofferenza, nella solitudine e nella disperazione, non mancano spiragli di luce e di speranza, come la visita dell’arcivescovo Mario Delpini che martedì 18 dicembre, alle 11, celebrerà la Messa al reparto femminile.
Don Marco, che cosa state facendo in questi giorni per prepararvi al Natale?
Come il prete passa nelle case, nelle fabbriche e negli uffici a benedire, così anche noi entriamo in ogni cella a portare la benedizione alle persone che ci vivono. Da una parte ci rendiamo conto anche della povertà e dello squallore di certe celle, della fragilità delle persone e della struttura in quanto tale; dall’altra, però, vogliamo lasciare un segno di speranza.
In che modo?
Attraverso due piccoli segni. Andando a benedire portiamo un lumino, che accendiamo in presenza delle persone che abitano quella cella, poi diciamo loro che noi ci allontaniamo, ma che la benedizione rimane e la luce che lasciamo ne è il segno. Lo facciamo anche con i fratelli musulmani, sapendo che per tutti Dio è «clemente e misericordioso» (uso le loro parole perché le possono capire), anche a loro portiamo la luce di Dio che fa bene a tutti. Consegniamo anche il cartoncino di Natale che l’Arcivescovo ha scritto ai detenuti e che si intitola Per te che passi il Natale in carcere. È bellissimo.
Cosa dice in particolare?
Parla della vicenda di Gesù. Allora qualcuno diceva: «Cosa vuoi che sia cambiato?». Insomma, cosa vuoi che cambi nel Natale 2018? Invece il vescovo dice che allora c’è stato un nuovo inizio: lo abbiamo visto non in quel momento – in cui re e imperatori di Roma neanche si sono accorti di Gesù, come pure i potenti della terra -, ma nel tempo, con l’annuncio del Vangelo che ha generato davvero fatti straordinari. Quindi il vescovo Mario, con questo cartoncino, augura a tutti, oltre che un buon Natale, anche un buon inizio: che questo Natale sia davvero anche per voi, come è stato per l’umanità, possibilità di un nuovo inizio.
E poi cos’altro proponete?
Accanto alla benedizione viviamo la proposta della confessione. Nei prossimi giorni andremo in ogni reparti: chi vorrà, potrà accostarsi al sacerdote, per questo chiameremo altri confratelli. Sono sempre momenti molto intensi e di confidenza. Io più volte, anche nelle prediche in “rotonda”, uso la parola «finalmente». Infatti per qualcuno finalmente la confessione può essere il modo per togliersi di dosso un peso, per sciogliere un nodo alla gola per ciò che ha fatto, per situazioni di fragilità, peccato, miseria, per il reato commesso… In un contesto di incontro e dialogo, finalmente possono togliersi questo peso di dosso ricevendo la grande grazia del perdono e della misericordia di Dio.
Nelle domeniche di Avvento avete riflettuto su un tema in particolare?
Quest’anno il cammino non era strutturato in tappe come avviene di solito, ma a partire dalla canonizzazione di Paolo VI ci siamo lasciati toccare da alcune pagine molto espressive e dalla sua preghiera del carcerato che abbiamo distribuito e letto.
A questo periodo emotivamente pesante, si aggiunge anche il disagio del sovraffollamento. Oggi a San Vittore i detenuti sono più di 900…
Sì, è vero, però bisogna essere realisti, perché non sono i 1800 di sei anni fa. Non siamo arrivati ad avere tutte le celle piene come allora, tuttavia abbiamo superato la capienza ufficiale. Alcuni detenuti seguiti dal Sert (Servizio per le tossicodipendenze, ndr) dovrebbero stare al terzo reparto, che ormai è pieno, e quindi si è dovuto “appoggiarli” temporaneamente al clinico. Tutte queste precarietà creano malessere in chi ospita e in chi viene ospitato.