Un corrente modo di dire fa del Natale una festa casalinga: «Natale con i tuoi…». La Pasqua, evidentemente ritenuta meno importante, può essere invece celebrata «con chi vuoi». Così si dice e così avviene: le famiglie, infatti, si ritrovano insieme almeno la sera della vigilia, magari con l’auto pronta per la partenza, il più presto possibile, per qualche luogo di vacanza. Per usare una parola oggi molto usata, Natale sarebbe una festa “localista”, tutta nostra, di noi cristiani, da ricordare con il presepe, le feste dei bambini nelle scuole, una bella cena col panettone… Una festa da custodire anche per rafforzare la nostra identità, che rischia di essere sommersa da altre culture e religioni sempre più presenti tra noi.
Eppure proprio il presepe, nonostante le apparenze, narra un evento che coinvolge l’intera umanità. Ci porta al di là dei nostri confini, a Betlemme, in una terra che ancor oggi fatica a essere riconosciuta dalle Nazioni. Ebrei i genitori del bambino, ebreo anche lui, naturalmente. E attorno a quella nascita, che non ha traccia nei documenti ufficiali del tempo, solo greggi di pecore con i loro pastori. Sembrerebbe solo una piccola storia locale.
Ma si racconta che in quella notte di Betlemme schiere di angeli avrebbero riempito il cielo di canti… Sono proprio loro, gli angeli, a coinvolgere in quell’evento tutti gli uomini che Dio ama. Come è ben noto, «Dio non fa preferenze di persone», e tutti, proprio tutti, senza eccezioni, sono gli uomini e le donne che Dio ama, che siano o no «di buona volontà». Grazie al canto degli angeli quella nascita davvero locale in uno sperduto villaggio di Palestina comincia ad abbracciare proprio tutti. Con gli angeli non poteva mancare una stella. Proprio una stella chiama altri dal lontano Oriente: si dice che fossero probabilmente persiani, oggi diremmo iraniani. E nel presepe questi tre hanno i colori delle diverse razze umane. Una nascita locale, ma sempre più globale, per tutto il globo. E quando questo bambino di Betlemme diventerà adulto, non si lascerà rinchiudere nei suoi confini, ma “sconfinerà” verso luoghi e soprattutto verso uomini e donne “diversi”, “altri”, “stranieri”: avrà frequentazioni non tutte raccomandabili, anzi dirà che proprio per costoro è venuto, come il medico viene per i malati e non per i sani. Così anche Lui.
È bello, allora, celebrare il Natale nell’intimità della casa, farne una festa per i più piccoli, ritrovarsi con i propri cari. «Natale con i tuoi», sì, ma se non “sconfiniamo” un poco rischiamo di smarrire l’orizzonte di questo giorno che abbraccia l’intera umanità. Chiediamoci: da dove nasce quell’impulso, almeno a Natale, a guardare con benevolenza ogni persona, a dire a chiunque una parola di augurio, ad avere almeno uno slancio di generosità per i poveri? Perché proprio in questo giorno gesti di accoglienza e solidarietà? Perché speriamo che le armi tacciano e vi sia tregua, almeno il 25 dicembre? Dietro questi gesti e queste attese io leggo il desiderio di vivere serenamente il Natale con i “miei”… Ma chi sono i “miei”? Per trovarli io credo che dovremmo tutti “sconfinare” un po’ per riconoscere che i “miei” sono dappertutto.
La nostra Chiesa diocesana ha appena concluso il suo Sinodo dedicato proprio a riconoscere che siamo “Chiesa dalle genti”. Non un piccolo ghetto, ma un grande, sconfinato abbraccio. E questo è il Natale.
(da «Il Segno», dicembre 2018)