Due protagonisti per un saggio di alto profilo scientifico che ripercorre gli anni, intensissimi dal 1954 al 1963, che videro Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano. E i due “fuochi” che attraversano, illuminandole, le oltre 350 pagine del volume di Giorgio De Zanna, sono appunto Montini e Milano, o meglio per usare il titolo della pubblicazione edita da il Mulino, Montini a Milano. A presentare il libro di Del Zanna, docente di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, non poteva che esservi un panel di relatori di eccellenza, riuniti nella sede dell’Ambrosianeum per l’incontro moderato dal presidente della Fondazione, Fabio Pizzul.
Ad aprire il dibattito Anna Scavuzzo, vicesindaco di Milano, che rappresentò l’amministrazione comunale alla cerimonia di canonizzazione di Montini nel 2018 e che ha ricordato come la riflessione su questa grande figura debba essere inserita in un contesto contemporaneo. «La città di Milano accoglie nuovamente il messaggio di Paolo VI, il nostro cardinale Montini, ora che analizziamo alcune delle istanze che egli pose a tema, come essere cristiani in una città dell’incontro tra dimensione laica e religiosa, desiderio di creare comunità e distanza della periferia. Tutto questo può aiutarci, guidati dall’ésprit de finesse montiniano, a comprendere la storia».
D’altra parte, il legame dell’Arcivescovo con la città fu sempre fortissimo e perdura ancora oggi, come testimonia l’inedita iniziativa di proiettare in Galleria nel 2014 la Messa di beatificazione in piazza San Pietro, per la prima volta allora in 4K.
Lo sviluppo negli anni ambrosiani
Articolata e documentatissima, la relazione di Giselda Adornato, biografa di Montini e consultore del Dicastero per le Cause dei Santi, affronta il duplice movimento che emerge dall’analisi di Del Zanna. «Da una parte un movimento centripeto, ossia le influenze che derivano a Montini dalla Francia e non solo, per esempio sul piano liturgico e anche nella Missione del ’57, e lo sviluppo teologico e pastorale degli 8 anni ambrosiani», articolato su quattro linee: «Innanzitutto la questione religiosa, per rispondere all’irreligiosità» contemporanea da cui è afflitta l’Europa; poi, l’ecumenismo, la «questione sociale» e, quarto, lo sviluppo nella visione del Concilio che, dopo il viaggio in Africa, diviene meno istituzionale».
Qual è, dunque, la valutazione storica di Del Zanna sull’episcopato montiniano? «Alla grande domanda sul “progetto”, si risponde che Montini non ha un progetto previo sulla Diocesi, ma si pone l’obiettivo di ricondurre a un ordine spirituale e morale il territorio che gli è affidato step by step. Più che essere un vescovo riformatore, è il pastore che interpreta la transizione in atto», nota Adornato.
Una Chiesa che parla al mondo
«La Chiesa di Milano si sta riappropriando della sua figura e delle intuizioni che egli ebbe su come immaginare una Chiesa che cresce là dove la città cresce: basti pensare oggi a Mind – osserva il vicario episcopale monsignor Luca Bressan -. Egli volle tenere la città unita tenendo la Chiesa unita. Il grande capitolo sulla Missione del 1957 è interessantissimo perché ha rappresentato per lui il tentativo di aggiornare la Chiesa compiendo una rivoluzione nel suo stesso essere vescovo – quale destinatario di tutta la città, come fu per Roncalli patriarca di Venezia -, ma scontando, in questo, le fatiche del suo clero». Chiaro il riferimento a quella che viene definita l’«urbanistica pastorale» che ha sempre interessato Milano da Sant’Ambrogio, con la costruzione delle basiliche matrici, a San Carlo, per arrivare al “Piano Nuove Chiese” montiniano, per cui l’Arcivescovo «non solo immagina ambienti dove far ritrovare la gente nelle periferie, ma chiama gli artisti, valorizza una scuola come la Beato Angelico, fa delle nuove chiese uno strumento pastorale».
Altra categoria affrontata da Bressan, e che molto si ritrova nel saggio, è quella dei «vicini e lontani», ispirata in Montini dalla missione di stampo francese: «Il tema del dialogo qui emerge con la comprensione della portata del Concilio e della sua difficoltà, volendo aprire la Chiesa di Milano a un’esperienza mondiale nella logica del Vaticano II che, a sua volta, per la prima volta parla al mondo. Montini è capace, in modo molto fine, di aiutarci a capire oggi come vivere la sfida della fede incarnata in una città come Milano fatta di pluralismo religioso e culturale».
Noi giovani accanto a Montini
Dall’esperienza di giovane universitario, negli anni a cavallo tra il 1957 e il 1963, si avvia l’appassionato intervento di Marco Garzonio, già presidente di Ambrosianeum, giornalista e psicoterapeuta: «Sono stati anni straordinari per me e per la mia generazione, che ha vissuto la guerra e anche il dopoguerra. L’idea che si potesse cambiare mobilitava energie e accendeva speranza». Il riferimento è alla rivista Relazioni sociali fondata nel 1961 da alcuni giovani formatisi alla Cattolica, «bollata – spiega Garzonio – come la sinistra del Cardinale».
«Tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta a Milano il mondo giovanile era per la maggioranza di ispirazione cattolica. Non per niente irrompono sulla scena Gioventù Studentesca e la Fuci. Montini rimase affascinato da Giussani e io ricordo benissimo che il grande punto di incontro fu l’Università, miscelando l’esperienza dei Giessini con quella dei Fucini di cui era assistente monsignor Giovanni Barbareschi».
Il pensiero torna così anche alla Corsia dei Servi, «polmone culturale e intellettuale del dibattito di allora» con padre David Maria Turoldo, padre De Piaz e tanti laici. «È stato grazie a Corsia dei Servi se la mia generazione ha potuto leggere Maritain, Congar, De Lubac, con i “Libri della Corsia”». Senza dimenticare, in questa arena del pensiero critico, il San Fedele dei Gesuiti, con pubblicazioni come Aggiornamenti sociali e Letture e la straordinaria figura di Giuseppe Lazzati, più volte richiamato nel suo ruolo di rettore della Cattolica, ma soprattutto di direttore de L’Italia – voluto nel 1962 da Montini e a strettissimo contatto con lui – «con la missione specifica di sottoporre a critica la tendenza all’alleanza della sinistra democristiana con i socialisti».
E, ancora, organismi come l’Istituto Sociale Ambrosiano e il Sedas, Segretariato diocesano di Attività Sociale che, in continuo confronto con il Cardinale, preparavano settimanalmente delle schede sulla storia della presenza sociale della Chiesa, del Movimento cattolico, per organizzare serate in tutta la Diocesi, specie nella Bassa, vista come terra di confine. «Montini poté fare tutto questo anche per la scuola di teologia di Venegono, con Giovanni Battista Guzzetti e Carlo Colombo, e il laboratorio di Sesto San Giovanni. Aveva ragione Giorgio Rumi quando diceva che Milano rende grandi gli arcivescovi».
Essere vescovo in un mondo che cambia
A prendere la parola è, poi, Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea in Cattolica: «Montini, quando è arrivato a Milano, era già al centro di una rete di contatti e di relazioni di grande spessore e questo ha portato con sé sotto la Madonnina. Ma qui è cresciuto e maturato diventando simile a quello che sarà poi Paolo VI. Milano nel libro c’è, ma la capacità del saggio è di mettere in relazione questi due poli, l’Arcivescovo e la città moderna. Montini vedeva Milano come centro vitale e laboratorio: fu l’Arcivescovo dei lavoratori, ma anche degli intellettuali, degli industriali, della Fiera. Si sente uomo di Chiesa universale, coniugandola molto bene con il suo essere vescovo, in un mondo che cambia».
In questo senso, suggerisce lo storico, «il rapporto tra centro e periferia non è solo questione e chiave di lettura urbanistica, ma di una concezione nella quale Milano e il mondo si salvano insieme o non si salva nessuno. Ciò dimostra la stima e l’ammirazione che aveva per la città, anche se non è mai stato un uomo da captatio benevolentiae, ma di sostanza, e questo il libro lo mette bene in luce». «La sua idea è che la Chiesa, se vuole conquistare le periferie, deve diventare un po’ periferica. Da una parte, vi sono le intuizioni molto coraggiose che però restano dentro un certo confine, perché è il centro che deve salvare le periferie. Vi è, comunque, in lui un orizzonte ecclesiocentrico, anche se, nel tempo, comprende che non esiste un “centro” credente e una periferia atea, ma uno scambio».
Infine, il breve intervento dell’autore del volume, che sottolinea il suo «tentativo di dare una lettura complessiva della fase ambrosiana della vita di Montini. Milano è stata decisiva per lui, una città moderna, ma con un tessuto di vita cristiana vivace anche, forse, regge ancora oggi e questo è unico». Insomma, il modello ambrosiano, che ovviamente non è fatto solo di numeri o dell’organizzazione capillare della Diocesi, con cui si confronta Montini lo cambia e lo porta a una visione complessiva del suo ruolo. «Il riferimento vicini-lontani che è, poi, quello centro-periferia è una grande chiave di lettura per comprendere il senso di una Chiesa che ha il compito di tenere insieme tutti, facendosi carico del comune vivere sociale. Tanto che, infatti, la missione come atteggiamento, al di là dei risultati, sta al cuore del ministero montiniano».