In tutti questi anni il cuore del mio servizio alla Chiesa in Turchia – prima ad Antiochia e attualmente ad Ankara – è quello di «raccontare la Buona Novella annunciata da Gesù Cristo», con una triplice modalità: verso i non cristiani (con incontri informali con i visitatori della parrocchia di Santa Teresa di Lisieux, con rapporti di buon vicinato, ma anche attraverso seminari di studio presso la Facoltà teologica islamica di Ankara o altre istituzioni che ne facciano richiesta esplicita); verso coloro che chiedono un cammino di fede che li porti al Battesimo (lungo il percorso di catecumenato); verso coloro che sono cristiani «di vecchia data» (nella pastorale ordinaria, ma anche attraverso la «Scuola della Parola» e cammini di formazione a giovani, donne e famiglie).
Troppo spesso la Chiesa di Turchia viene presentata come una «reliquia» e così tanti sono convinti che qui non esista più il cristianesimo. Eppure tra ottanta milioni di abitanti ci sono ancora 200 mila cristiani locali sparsi su tutto il territorio in minuscole comunità – certo un numero piccolissimo, quasi ridicolo – a cui ora si aggiungono i tanti rifugiati.
Una Chiesa che è più piccola del più piccolo dei semi, e che, benché abbia radici molto profonde, è come un fragile germoglio, continuamente bisognoso di essere custodito e accompagnato perché possa crescere e fruttificare uscendo dal suo sentirsi isolata e abbandonata.
E, così, tra gli altri impegni, facendo io parte di un’equipe voluta dalla Cet (Conferenza episcopale turca), attraverso corsi di formazione a livello nazionale, aiuto i cristiani locali ad approfondire la Storia della salvezza, introducendoli alla Bibbia, alla storia della Chiesa e alle problematiche di un cristiano del XXI secolo, perché possa essere sempre più luce, sale e lievito, segno efficace di Gesù Cristo e fermento di amore e riconciliazione.
Purtroppo anche noi, coinvolti dalla pandemia del Covid-19 quest’anno abbiamo dovuto sospendere tutti i nostri incontri, ma qui, abituati alle grandi distanze e a una sorta di solitudine, grazie all’uso del web e delle varie piattaforme online esistenti, riusciamo a mantenere e rinsaldare i legami anche con la reclusione in casa e a raggiungere anche persone «irraggiungibili» in altro modo.
Questa, dunque, è una preziosa occasione per scoprire che si può essere vicini anche nella lontananza, che basta poco per sentirsi uniti anche a centinaia di chilometri di distanza gli uni dagli altri, che si può vivere la comunione ecclesiale e fraterna anche nelle proprie case e questo, visto che le chiese-edificio e il personale ecclesiale qui è veramente scarso, per chi si trova isolato, solo, senza la presenza di una struttura o una comunità cristiana di riferimento, scoprirsi «Chiesa domestica» come avveniva proprio qua per le prime comunità cristiane, è il più bel dono in questo periodo di dolore e incertezza, un vero e proprio tempo di grazia.
È una grande opportunità di comunione con il corpo della Chiesa universale, scoprendo che la testimonianza più vera da vivere attualmente è l’unità intorno alla Parola di Dio che si fa vita, solidarietà, condivisione e preghiera di intercessione; e anche io da loro imparo il coraggio e la tenacia, crescendo nella mia fede di tutti i giorni.
«Voi siete il campo di Dio»: credo che questa frase che san Paolo indirizza ai Corinti (1 Cor 3,9) ben si addice a quanto viviamo in Turchia: siamo una «piccola zolla di Dio», una «terra di mezzo» che vuole essere ospitale per diventare uno «spazio» di ristoro, di riposo, di sosta, piangendo con chi piange, gioendo con chi gioisce, cercando di sperare contro ogni speranza, consolando e condividendo la stessa fragilità e impotenza.