«Come accade spesso, le cose belle della vita accadono, non si decidono a tavolino, così è per stasera, dove uomini di diverse mondovisioni, appassionati del proprio tempo e di Milano si sono incontrati per confrontarsi, per lasciarsi narrare e narrarsi, in modo da raggiungere un riconoscimento possibile e da incontrare la nostra città, in questo tempo decisivo e di grande prova. Un’unità nata per raccordare i mille aspetti dello sviluppo di una metropoli dal carattere plurale. Un’unità fatta, quindi, di reciproca narrazione per trovare strade di vita buona a partire dal bene sociale del vivere insieme. Viviamo questa serata senza nessun principio di autorità, nessuna appropriazione di tale gesto se non da parte di tale Comitato scientifico che se ne è assunta la responsabilità. Speriamo in un lavoro che si articoli, poi, su tutto il territorio almeno delle terre ambrosiane. È un contributo per avere e costruire il futuro». Le parole del cardinale Angelo Scola – semplici, ma che chiariscono subito il significato del primo incontro dell’iniziativa dei “Dialoghi di Vita Buona”, dedicato al tema “Confini-Migrazioni” – aprono l’evento atteso che si svolge presso il Piccolo Teatro Studio Melato con la partecipazione di tanta gente.
Il direttore del Piccolo Sergio Escobar spiega che aver voluto mettere a disposizione i propri spazi «non è semplicemente un’ospitalità, ma una condivisione, perché il dialogo non è solo un urgenza, ma la capacità di produrre conoscenza, unico antidoto di fronte alla contrazione generata dalla tragicità dei fatti e dalla paura». E se il teatro è «da sempre il luogo del dialogo, che crea appunto conoscenza e responsabilità», la nota polemica riguarda l’Europa, «dove la cultura dell’incontro manca e in cui si pensa ancora di risolvere i fenomeni attraverso l’egoismo degli Stati e secondo il modello delle quote latte».
E, così, dopo la lettura del brano di Genesi 13, il confronto si avvia, immediatamente, serrato, partire dall’idea stessa di crisi e di confine.
Cacciari: comprendere il confine
Una crisi che, per il filosofo Massimo Cacciari, «è soprattutto, crisi di concetto e di paradigmi, perché mancano i mezzi con cui affrontare la situazione, fin dalle stesse parole ed espressioni che usiamo».
Che cosa intendiamo per confine? «Un limen, che vuol dire soglia, “porta” da cui si entra e si esce, o limes che indica una barriera? Un luogo cosa è? Un contenitore, o lo spazio fino al quale dove giungiamo, dove arriva il pensiero, mentre la parola luogo richiama, in molti idiomi, la cavità e il ricettacolo? Aristotele diceva che il luogo è il concetto più difficile da definire. Tuttavia, senza ridurre la complessità, siamo obbligati a decidere se confine è limen o limes, soglia o barriera, luogo dove ci trinceriamo o deve arriva lo sguardo, la volontà e il desiderio».
Di certo, il limes è qualcosa di totalmente impossibile nel mondo attuale, e nemmeno pensare ai confini-muri, come dimostra la civiltà che è alla base dell’Occidente: «Basterebbe anche solo la storia per comprendere quanto sia ineffettuale questa posizione. È semmai la soglia, la porta che dobbiamo prendere in considerazione. Ma la soglia che senso ha senza una casa?».
Da qui, i due concetti da combattere: «L’idea di chiudersi e che il confine sia qualcosa di assolutamente aperto, perché l’una è l’identità egoistica e l’altra quella indifferente, quella della notte “in cui tutte le vacche sono nere” e dove vale solo lo scambio economico. Entrambe cattive identità. Le differenze nel mondo costringono a pensare a un lungo periodo in cui conosceremo imponenti fenomeni migratori, che occorre affrontare culturalmente, se vogliamo governarli, altrimenti diventeranno un vento impetuoso che travolgerà tutto».
Coma a dire, la debolezza dei paradigmi è a sua volta figlia di una stanchezza antropologica che necessita di guardare al contesto generale non fermandosi solo all’emergenza. Anche perché le responsabilità storiche europee sono tante: «Lo diceva già il filosofo Toynbee sessant’anni fa: pensiamo all’Europa che ha inventato confini e Nazioni, dopo la seconda guerra mondiale, creando Paesi nel deserto e forme statuali mai nate ed esistite in quei luoghi. Se non manteniamo le promesse fatte avverrà un processo di proletarizzazione di massa dei Paesi musulmani che sarà assai pericoloso. Le migrazioni sono l’evidenza di un modello manifestamente in crisi. Lo sforzo da fare non è trovare il denominatore comune a cui ridurre i distinti, ma promuovere la cultura della differenza. Le differenze ci sono, anche abissali, ma nella comparazione, il dialogo è possibile: questa è la dimensione da attribuire anche al dialogo interreligioso e interculturale. Speriamo che l’Europa dia finalmente contraccolpo di coscienza, sapendo che dentro di essa c’è la scienza, ossia conoscere l’ambito e la situazione in cui si opera.
Magri: «Dalla Milano accogliente degli Anni Sessanta un modello per il futuro»
Parte invece dall’immagine dell’iceberg il direttore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Paolo Magri: «Dopo i tremila scomparsi in mare di quest’anno e gli altrettanti del 2014, che sono solo la punta dell’iceberg dei 23 mila morti degli ultimi quindici anni nel Mediterraneo e delle oltre migliaia che percorrono le piste del Sahara e che vengono seppelliti ai bordi del deserto, qualcosa è cambiato in Europa. Ma il modo è stato confuso e litigioso, segno di un’Europa confusa e litigiosa, che prima ha negato il problema, poi ha pensato di sostituire Mare Nostrum con una nuova missione, infine, quando il flusso è arrivato nel centro Europa, in Austria e Germania, sembrando inarrestabile, ha iniziato a parlare di ridistribuzione e di quote. Litigando su quote e sanzioni abbiamo, infine, partorito il topolino»
“Topolino” fatto dei tre miliardi di aiuti stanziati ai Paesi coinvolti, negli stessi giorni in cui la sola Turchia chiedeva tre miliardi per i suoi profughi. «Ma il più grande topolino che abbiamo partorito sono state proprio le quote – osserva Magri -, perché 800 mila sono gli sbarchi di quest’anno, mentre le quote parlano di 80 mila e a oggi sono stati ridistribuiti solo qualche centinaio di profughi».
Senza dimenticare che «quegli 800 mila sono, a loro volta, la punta dell’iceberg dei quattro-cinque milioni di siriani che vivono appena fuori del loro Paese – in Turchia, Libano, Giordania -, ma che ormai capiscono che non possono più stare anni accampati in Nazioni più povere delle loro. E, ancora: «Il raddoppio della popolazione in Africa nei prossimi 35 anni si calcola che porterà, per il cambiamento climatico, il numero di chi lascerà il Continente a cinquanta milioni di unità».
Insomma, queste centinaia di migliaia, milioni di persone non sono l’eccezione, l’emergenza, l’evento eccezionale, ma il modo improprio nei termini è, ancora una volta, la punta di un iceberg: «Abbiamo sentito l’espressione “assedio all’Europa”, come se 800 mila persone in un continente che ha mezzo miliardo di abitanti fosse, appunto, un “assedio” e non lo fosse quello del Libano che su quattro milioni di cittadini, in un anno, ha avuto un milione e mezzo di profughi. Diciamo, ancora, “aiutiamoli a casa loro”, come se non sapessimo che “a casa loro” c’è la guerra, come se non sapessimo – dopo settant’anni di cooperazione allo sviluppo – che non siamo capaci di aiutarli».
Basti pensare all’esempio del confine tra Stati Uniti e Messico con i suoi 3140 km di muri e gli undici milioni di immigrati illegali che ci sono, comunque, negli Usa. L’invito è a guardare anche in Italia, agli ospedali, alle grandi fabbriche, ai lavoratori dei mercati: «Tutti stranieri che fanno lavori che non sappiamo o vogliamo più fare noi. Vedeseta, il paese più vecchio della Lombardia, che conta 210 abitanti, tra mezzo secolo non ci sarà più. Ma ricordiamo che l’Italia è la Vedeseta di Europa».
Questioni concrete, già reali nei numeri e che, tuttavia, la paura del terrorismo rende ancora più difficili da gestire, mettendo in dubbio non solo i flussi, ma anche il numero di coloro che sono già qui: «I quasi venti milioni di musulmani che vivono in Europa ci devono far capire che la vicenda delle quote o come organizzare gli hotspot sono solo la punta dell’iceberg della vera sfida. Che è, invece, come garantire una buona accoglienza, cosa fare di queste persone, come insegnare la lingua; quali alloggi, quale visibilità, quale regola di cittadinanza, di ingaggio lavorativo, dare loro. Certo, tutto ciò costa, ma perché si può pensare a una verifica del patto di stabilità per la security e per l’esercito e non riguardo a tali temi? Potremmo investire nelle scuole, assumendo insegnanti, potenziando il personale degli ospedali, assumendo muratori per costruire abitazioni… La Milano dei 13 mila rifugiati accolti quest’anno, la metropoli europea dei “Dialoghi” non vuole essere una periferia di Bruxelles di questi giorni, o della capitale del mondo, Washington. La Milano europea del futuro è quella del passato, che in cinque anni, dal 1955 al 1960, ha accolto quattrocentomila immigrati, edificando interi quartieri come Qt8 o il Gallaratese, per ospitare chi veniva dal Sud e dal Veneto. La Milano di allora dimostra che si può e si deve trovare, con l’aiuto di tutti, un modello-Milano, per essere “A place o be” e non solo per l’Albero della vita di Expo».
Sequeri: «La chance di un civismo autorevole che viene dal basso»
Dal rapporto tra migrazioni e confini «che si muovono insieme», prende avvio la riflessione del preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale monsignor Pierangelo Squeri, che spiega: «Le zone di ombra sono la nostra vita. Dobbiamo imparare a decifrare i punti di sovrapposizione, di penombra, perché ciò che è in atto ci cambierà, nel lungo, breve, medio periodo, e anche il cristianesimo lo sa. Consacrare e sacrificare sono letteralmente lo stesso – “fare sacro” -, ma consacrare è diventato sinonimo di custodire a costo della vita, mentre sacrificare significa che, per vivere, è necessario consegnare qualcosa, imprimere il segno della mancanza. Noi abbiamo iniziato a pensare che la parte sacrificale non sia più necessaria, mentre dobbiamo capire ciò che deve essere custodito e cosa sacrificato. Se la cosa certa è che cambieremo, non è decisiva la religione dalla quale si proviene negli scontri e incontri inevitabili in questi movimenti tellurici dell’umanità che chiamiamo migrazione, ma è la fede che se ne vuole ricavare, a qualunque credo si appartenga».
Così la questione per Sequeri, che utilizza l’immagine mitologica di Narciso, è cosa sacrificare per mantenere sacro qualcosa d’altro: «Narciso è il simbolo dell’estetismo, dell’interiorità priva di legami con il mondo che non vede più niente, che nega l’esteriorità di un mondo fatto di “prossimi” fastidiosi, tanto che i nostri piccoli, educati secondo questa mentalità, non essendo pronti a niente nel mondo e nella vita, sono pronti a tutto». Cosa fare, allora? «Abbiamo bisogno di un’alleanza di fronte a un mutamento che ci chiede di ridefinire i confini tra un interiore che può diventare delirante e un esteriore che ci può salvare. Occorre una città che sappia che l’ospitalità può trasformarsi in una benedizione». Una speranza, un affidarsi, questo, che il teologo chiama fides e che va sostenuta da un foedus, da un “patto” tra chi accoglie e chi è accolto: «Milano ha una vocazione interessante riguardo l’ospitalità, non essendo una megalopoli, né una borgata, ma una città di livello internazionale che ha la dimensione giusta per accettare questa “giocata” tra migrazioni e confini, tra sovrapposizione e zone di ombra».
E questo anche per altre due ragioni storico-culturali caratteristiche dell’ambrosianità: «Una solida alleanza tra grande borghesia e popolo, con la prima intenta agli affari, ma non disinteressata della cosa pubblica e l’elemento popolare, per così dire, partecipe e complice della cittadinanza».
Fondamentale, in questo orizzonte, anche quello che viene definito «l’illuminismo di buon senso, che dovremo rivalutare e una cristianità in cui la capacità di prendere le misure di una religiosità civile rispettosa della cittadinanza e che non “rompeva” la complicità di tutti, ha creato una tradizione praticata». E quando Sequeri dice, con un apparente basso profilo, ma potentemente: «sarebbero delle chances, secondo me», scoppia fragoroso l’applauso.
Il dibattito
Poi, moderato da Gad Lerner, il botta e risposta con i relatori e gli interrogativi arrivati sui social.
«Secondo alcune analisi (Massimo Livi Bacci) l’Italia, nel 2050, senza immigrazione, scenderebbe da 60 milioni di abitanti a 45 – sottolinea Lerner, che fa agli auguri al milanese Filippo Grandi designato, dal 2016, a guidare l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite -. È evidente che la debolezza con cui affrontiamo il problema dell’immigrazione non emerge da differenze tra le popolazioni – tra i tedeschi apparentemente felici di accogliere o chi respinge nell’Est -, ma nasce da poca consapevolezza. È l’Europa che non sa affrontare strategicamente la questione».
Esiste una possibilità da parte della politica di governare il fenomeno e l’islamizzazione dell’Europa, paventata da tanti, è reale? Per Magri «esiste, almeno, la possibilità di porre il problema in termini corretti per esempio sul “pericolo” di islamizzazione, considerando che sono venti milioni, oggi, i musulmani e che nel 2030 si arriverà al massimo a trenta milioni, pari al 5/6% della popolazione, quindi, comunque a un’assoluta minoranza in Europa».
L’esperimento mentale in questa nostra società sofisticata non basta – torna a dire Sequeri – per il quale «esteriorità significa avere dei modi e luoghi virtuosi, come gli oratori, le parrocchie o la Caritas, in cui vi sia possibilità di mediare positivamente il confronto. Il dialogo non è una questione di massimi sistemi: è la parte di fides che manca; è la politica che latita, cioè il modo attraverso cui si sostiene l’ospitalità. Ciascuno deve dire cosa ha intenzione di fare e di sacrificare, ma ci vogliono dei mediatori che creino il consenso e che facciano emergere il patto, verbalizzando, creando il dialogo. Il mediatore è il politico in senso civico, non quello che si occupa della questione burocratica, ma quello che, appunto, verbalizza. È urgente un civismo autorevole, che deve venire dal basso, religioso e non religioso, che imponga un passaggio garantito culturalmente, altrimenti avremo una cittadinanza formale e un’indifferenza sostanziale. L’ospitalità non è ancora la cittadinanza, ma non è più l’estraneità. Questo è una passaggio fondamentale».
Infine Cacciari: «L’assenza europea non ha giustificazione, basti pensare al trend dello squilibrio demografico che avrebbe prodotto migrazioni massicce, noto da quarant’anni. Il problema è che la crisi e la guerra hanno reso tutto più difficile e rapido. Ora governare gli eventi è veramente difficile, ma ciò che è pericoloso e peccaminoso sono le risposte semplificate e sciagurate come costruire i muri».