Ha già dimostrato più volte, l’arcivescovo Delpini, una sensibilità particolare nei confronti delle persone sorde. E domenica 19 settembre, alle 11, torna a celebrare la Messa nella parrocchia milanese di Sant’Antonio Maria Zaccaria (via San Giacomo 9) con l’interprete della lingua dei segni italiana (Lis). È lì che dall’Avvento 2020 la Diocesi ha garantito una messa domenicale “tradotta” per i sordi. Ne parliamo con don Mauro Santoro, responsabile della Consulta diocesana «Comunità cristiana e disabilità».
Come è andata l’esperienza durata quasi un anno?
È stata sicuramente positiva e ha riscontrato da parte della comunità dei sordi un grande apprezzamento, anche nei confronti dell’Arcivescovo che l’ha presa a cuore. Tuttavia stiamo parlando di un’attività pastorale avviata in tempo di pandemia, per cui dal un punto di vista dell’accessibilità di questa proposta per le persone sorde non siamo riusciti a verificarla realmente. La prova sarà questo nuovo anno pastorale, perché gli spostamenti saranno possibili, nella speranza che non tornino le chiusure.
Pensate di proporre anche altrove l’iniziativa?
Sì. La nostra intenzione è quella di individuare, oltre al Duomo, altre chiese nei quattro punti cardinali in modo da far girare la Messa in tutto il territorio della Diocesi. La parrocchia di Sant’Antonio Maria Zaccaria, che si trova a sud di Milano, ha fatto da apripista. Abbiamo già individuato altre chiese (al momento però manca l’ufficialità) disposte ad accogliere una volta al mese la Messa domenicale, così da raggiungere più zone.
Sapete da dove arrivavano i fedeli che partecipavano alla Messa nella lingua dei segni?
Venivano soprattutto dal centro di Milano, erano poche persone, e l’obiezione sollevata da alcuni era appunto che la chiesa dove si celebrava era un po’ defilata. Per questo ora cerchiamo altre realtà per avvicinarci a tutti.
Questa novità non è solo segno di inclusione, ma anche di attenzione alla vita di fede delle persone sorde…
È un desiderio che hanno e di cui farsi carico. Da una parte però, insieme a questi primi gesti di attenzione che la Diocesi sta realizzando, occorre aggiungere un lavoro pastorale perché siano sempre di più le comunità cristiane a rendersi sensibili. Dall’altra, ai sordi diciamo che non è sufficiente “rivendicare” le attenzioni che la Chiesa deve avere nei loro confronti, ma loro stessi sono Chiesa e devono diventarne protagonisti. Questo è un lavoro molto lungo, non c’è chi dà e chi riceve, la Chiesa è un “noi”. La Messa con l’interprete Lis non deve essere un servizio erogato, ma qualcosa che appartiene alla pastorale. Questa è la vera sfida.
Quindi si tratta di sensibilizzare di più le comunità?
Sì, ma con il coinvolgimento dei sordi, perché – ripeto – non devono essere i fruitori di un servizio, ma si deve camminare tutti insieme, andando anche oltre. Noi vorremmo creare la comunità dei sordi, ma non in modo segregato: un conto è la comunità di sordi, altro è la singola associazione. Noi non ci rivolgiamo alle associazioni, ma alle persone sorde che, da qualunque associazione provengano, desiderano coltivare un cammino di fede, magari nel luogo dove si trovano. Si tratta di passare dall’associazione alla comunità di sordi, ma non è facile, perché ognuno tende a mantenere il proprio spazio e territorio.