«Ero incuriosita dal sapere e così mi sono iscritta a Filosofia in Statale, dove ho studiato con Fulvio Scaparro, promotore della mediazione familiare in Italia. Ho viaggiato molto, in tutto il mondo, seguendo mio marito economista. Mi sono formata come mediatrice familiare a Parigi, ho partecipato a convegni internazionali e la mediazione familiare è diventata il centro della mia attività professionale e accademica. Ho lavorato sia nel pubblico, sia nel privato». Costanza Marzotto è sposata da 53 anni, ha tre figli e quattro nipoti. Nata a Fiesole, ma trasferita a Milano giovanissima, si è diplomata dapprima come assistente sociale e ha lavorato nei servizi sociosanitari nella Bassa milanese. Oggi è un’operatrice della Fondazione don Silvano Caccia.
Quando nel 1995 viene fondata la Simef (Società italiana di mediatori familiari) lei è tra le promotrici…
Sì, ho contribuito a fondare l’associazione tra i professionisti e a promuovere il master executive biennale per mediatori familiari e comunitari in Università cattolica, come responsabile e docente. Nella facoltà di Psicologia ho insegnato Metodi e tecniche della mediazione familiare e ho proposto molti laboratori sul tema a coloro che seguivano il corso di laurea in Scienze del servizio sociale.
Una passione antica, ma in continuo aggiornamento…
Esattamente. Sul tema della mediazione familiare mi sono soffermata a lungo, ho scritto molti testi, mi sono proprio appassionata e continuo anche l’attività di revisione della pratica. Poi nel 2000, quando ero in Canada, ho conosciuto i gruppi di parola per figli di genitori separati.
E ha deciso di portare questa risorsa in Italia?
Sì, credo sia un percorso breve (4 incontri di due ore ciascuno a cadenza settimanale), ma molto efficace. I bambini e i ragazzi prendono parola sull’«evento critico» della separazione dei propri genitori e si supportano nel reperire strategie buone di fronteggiamento. È proprio a uno di questi corsi che ho conosciuto Claudia Alberico, la direttrice della Fondazione don Silvano Caccia, che mi ha proposto poi di collaborare con il consultorio di Erba, come mediatrice familiare.
Quanto è importante che i consultori prendano in carico le diverse dimensioni critiche legate alla separazione dei genitori, dal punto di vista dei figli?
Moltissimo. La separazione è una transizione critica molto faticosa. Credo fermamente che i consultori possano accompagnare questa fase di passaggio drammatica, senza che diventi tragica. Una delle risorse più efficaci è proprio il gruppo di parola per figli di genitori separati. Il soggetto che vive questa transizione è aiutato a dialogare meglio con la propria realtà familiare. Anche per noi professionisti è importante entrare nell’ottica di una transizione che coinvolga tutte le generazioni.
In che senso?
Non si può pensare di fare un buon lavoro, se non si tengono in considerazione la figura dei figli, dei genitori e dei nonni. Lo sguardo pluri-generazionale è peculiare dell’approccio relazionale simbolico a cui faccio riferimento ed era lo sguardo anche di don Silvano Caccia, a cui è intitolata la nostra Fondazione.
Se dovesse pensare a parole chiave per il futuro dei consultori e della Fondazione, cosa direbbe?
Fiducia, speranza e giustizia. È tempo che le persone ricomincino a fidarsi del professionista dal quale si sono tutti ritirati, per paura, per fatica… Speranza nelle competenze delle persone (bambini, genitori e nonni) che sono da valorizzare. Non dobbiamo “infantilizzare” le persone, mettendole sotto tutela, con poca speranza nei confronti delle competenze personali. Penso a genitori che hanno compiuto azioni non adeguate, per esempio ad alcuni papà che non si sono occupati dei figli. Serve ingaggiare i diversi membri del corpo familiare, attivando un lavoro col singolo, di coppia e iniziative come il gruppo di parola, i gruppi per coppie genitoriali e gruppi di condivisione per nonni con famiglie divise.
E per quanto riguarda la giustizia?
Ci sono categorie di utenti più coccolate di altre. E questo non è corretto. Dobbiamo riuscire a lavorare con le famiglie straniere immigrate e con le coppie miste. Il consultorio è il luogo adatto dove poter attivare questa sfida, di cura e di accompagnamento, inteso come lavoro clinico con le persone, le coppie e le famiglie, non necessariamente terapeutico.