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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Ricordo

«Martini ci insegnò a essere preti»

A pochi giorni dall'anniversario della morte del Cardinale, la testimonianza di don Gianni Cesena, tra i primi sacerdoti da lui ordinati e poi suo segretario: «La sua eredità è un patrimonio di ricchezza»

di Luisa BOVE

25 Agosto 2013

Hanno vissuto il passaggio tra due Arcivescovi, i preti novelli ordinati nel giugno 1980, entrati in Seminario con il cardinale Colombo e consacrati in Duomo da monsignor Carlo Maria Martini, da pochi mesi alla guida della Chiesa di Milano. «Il suo arrivo costituì per noi una sorta di paternità spirituale – ricorda oggi don Gianni Cesena, responsabile della Comunità pastorale di Peschiera Borromeo, già impegnato nella Pastorale missionaria (a Milano e poi a Roma), ma per sei anni, dal 1986 al 1992, segretario del cardinale Martini -. Siamo la classe che ha ricevuto da lui indicazioni importanti sull’essere preti per il decennio che si apriva. Le trasformazioni di Milano e della Diocesi erano ormai evidenti».

E poi?
Siamo stati i primi a fare le cosiddette convivenze come diaconi: passavamo un paio di giorni a gruppi di cinque in casa con lui, condividendo momenti di preghiera, di incontro personale, di riflessione, di carattere pastorale, ma anche del pranzo. Questo ha significato per noi un legame diretto col Vescovo e credo, essendo i primi, anche una memoria più spiccata da parte sua per la nostra classe. Ricordo poi, la mattina dell’ordinazione, un’emozione particolare sul volto dell’Arcivescovo, sia quando venne a vederci prima della celebrazione, sia durante, specie per un piccolo inciampo nell’iniziare la predica e disse: «È lo Spirito che fa tutto e quindi lasciamo fare a Lui».

Dell’esperienza come segretario che cosa l’ha colpita di più?
È difficile sintetizzare, perché con un Vescovo del calibro di Martini si sono affrontati tutti i temi fondamentali. Il primo aspetto che mi rimane è quello personale, di una costante fiducia nel lavoro che si svolgeva insieme, pur con ruoli diversi, e veniva ripagato da una scuola di pastorale che lo stare accanto a lui costituiva. Il suo approccio ai problemi era sempre più approfondito, più fresco, con punti di vista più ampi e diversi dalle piccole abitudini o visioni dei suoi collaboratori. Erano anche gli anni della sua presidenza al Consiglio delle Conferenze episcopali europee e quindi dell’importanza di Milano attraverso di lui, e poi l’apertura verso l’Est, la caduta del Muro di Berlino, l’ingresso di queste Chiese a pieno titolo nel mondo europeo…

E dei viaggi missionari che cosa ricorda?
Il suo grande senso di curiosità nel cercare di vedere e capire le altre culture, le altre Chiese, mai un pregiudizio nei confronti di espressioni diverse di Chiesa. Martini è stato in Bangladesh, Perù, Zambia, Camerun, Messico, Corea, Venezuela… Ma accanto a questo penso anche al dialogo interreligioso, quindi a cosa significava collocare le Chiese missionarie all’interno di un mondo che, diversamente dal nostro, si confrontava costantemente con le grandi religioni o con lo spirito religioso dell’essere umano. Il Cardinale era rispettato, ascoltato e consultato, era un fratello tra i fratelli e creava una migliore comunione all’interno dell’episcopato dei vari Paesi che visitavamo.

A un anno dalla sua morte Martini lascia un vuoto o un’eredità?
Io sono molto stupito del costante pellegrinaggio che c’è in Duomo sulla sua tomba, come sono stato colpito dalla presenza della gente nei giorni della sua morte, dal moltiplicarsi di riflessioni e libri. La sua è un’eredità molto complessa, non credo che si possa racchiuderla in pochi elementi. Questa è una fortuna, perché vuol dire che ciascuno può prendere qualcosa e andare avanti. È l’eredità di un Padre della Chiesa, come erano gli antichi Padri della Chiesa, perché la sua produzione – il suo pensiero, le sue omelie e direi soprattutto le lettere pastorali e la predicazione degli esercizi spirituali – è molto ampia. Poi ci sono tante altre iniziative: la Cattedra dei non credenti, la Scuola della Parola dei giovani… Martini però non si esaurisce in una battuta, in uno slogan o in un’iniziativa. È un patrimonio di ricchezza e lì bisogna ritornare, avendo la pazienza di rileggerlo, di riprenderlo e di rimeditarlo.

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