Ancora la “Chiesa in debito” con l’indicazione riguardante l’Eucaristia a cui è orientata tutta la liturgia. Ma cosa significa che «i preti, i diaconi devono imparare a celebrare con vivo senso del mistero», come ha detto monsignor Delpini nell’omelia della Messa crismale? «È il secondo “debito” dopo quello della Parola – osserva monsignor Claudio Magnoli, responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale liturgica -. L’Arcivescovo mette in evidenza come la liturgia, che ha il suo vertice appunto nell’Eucaristia, è il momento in cui la Chiesa dice se stessa, annuncia ciò che ha di più caro, celebra quello che ha di più proprio».
È questa la ragione per cui vi è la necessità di entrare sempre più profondamente nel Mistero celebrato?
L’Arcivescovo mette in luce due aspetti. La prima attenzione è quella inerente all’atto celebrativo ben curato in tutte le sue parti perché, come dice il Concilio Vaticano II, risplenda di una «nobile semplicità» e diventi capace, attraverso i suoi segni, i gesti e le parole, di comunicare la profondità di quanto che viene celebrato. È chiaro che è un invito generale, ma credo che si tratti di un’indicazione che è nata e corrisponde alle visite che monsignor Delpini, anche nella sua veste di Vicario generale, in questi mesi ha compiuto in tante comunità. Non a caso, cita «la cura per la Celebrazione e la promozione della partecipazione di tutti i fedeli, quale priorità indicate nella conclusione della Visita pastorale del cardinale Scola e nella Lettera alla Diocesi di quest’anno».
Perché?
Perché il primo incontro che si ha con una comunità è con il suo modo di celebrare: quindi, non solo i sacerdoti e i diaconi, ma anche tutti i collaboratori laici e ogni comunità cristiana sono chiamati a “crescere” per arrivare a livello di una buona celebrazione.
E il secondo aspetto?
È quello – sempre stato molto a cuore al nostro Arcivescovo – che non si resti alla pura forma celebrativa, ma che, attraverso essa, si arrivi, potremmo dire, al cuore del Mistero, e cioè all’incontro con il Cristo morto e risorto. È questo che ci santifica, mettendo in movimento una vita nuova, una dimensione di comunità coesa, unita, fraterna, in grado di giungere al perdono reciproco e alla collaborazione là dove è richiesta, anche con le realtà che sono al di fuori della comunità.
Insomma, una vita personale e comune che matura in una convinta opera di santificazione?
Sì. La liturgia, così, nelle due sottolineature della “Chiesa in debito” strettamente collegate tra loro, diventa volano, di unità della persona e principio capace di generare una comunità veramente fraterna e nuova. Ciò di cui tutti, a livello personale e comunitario, abbiamo tutti bisogno per evitare un rischio chiaramente espresso da Delpini quando dice: «L’assemblea e persino i celebranti sono tentati di vivere la Messa domenicale e le altre celebrazioni della Comunità con un automatismo che rende evanescente il senso del Mistero».22